Lo stato di salute delle due democrazie aderenti al gruppo di Visegrád non è dei migliori e le direttive per il contenimento della Covid-19 rischiano di aggravare una situazione già precaria
«È l’inizio della dittatura», «è un colpo di stato» tuonano le opposizioni ungheresi – tanto il Partito socialista ungherese quanto i nazionalisti di Jobbik. È il 30 marzo 2020 e, mentre il mondo tenta di arginare la diffusione del coronavirus, il Parlamento magiaro ha appena conferito al premier Viktor Orbán pieni poteri per la gestione dell’emergenza sanitaria.
Al primo ministro viene consentito di legiferare per decreti, sospendere o cambiare leggi in vigore, sciogliere il parlamento e bloccare le elezioni, e a lui solo spetterà sancire la fine di queste misure d’urgenza; inoltre, vengono introdotte «sanzioni penali – il carcere fino a cinque anni – per la diffusione di informazioni false». Tutto ciò quando nel Paese si registrano 15 vittime e 447 contagiati da Covid-19 a fronte, però, di soli 13 mila tamponi effettuati. I partiti di opposizione – accusati dallo stesso Orbán di stare «dalla parte del virus» – considerano tali misure «sproporzionate» e anche la Commissione europea manifesta la propria preoccupazione. Il 2 aprile 2020 gli esponenti di 13 partiti del Partito popolare europeo, al quale afferisce Fidesz, la formazione del capo di governo magiaro, ne chiedono l’espulsione. La risposta di Orbán non si fa attendere: «Non riesco a immaginare come si possa avere tempo per fantasie sulle intenzioni degli altri Paesi» afferma il giorno successivo. Anche in Italia il tema suscita prese di posizione opposte: se il commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni guarda preoccupato a una politica che «sta sperimentando i limiti di che cosa è possibile in democrazia», Matteo Salvini saluta «con rispetto la libera scelta del Parlamento ungherese, eletto democraticamente». Certo è che, come riporta il settimanale Internazionale, questo è «il culmine di un percorso autoritario che dura da anni e che si è dipanato sotto lo sguardo spesso benevolo delle opinioni pubbliche europee».
Ma qual è realmente lo stato di salute dell’Ungheria? Secondo l’ultimo Indice di percezione della corruzione redatto da Transparency International, nel 2019 la Repubblica ungherese si è classificata al settantesimo posto su centottanta con un punteggio di 44/100, il peggiore dell’area Ue ed Europa dell’est, insieme a quello di Romania (44/100) e Bulgaria (43/100). Sempre secondo il report, «diversi Paesi, tra cui Ungheria, Polonia e Romania, hanno preso provvedimenti per minare l’indipendenza giudiziaria e questo indebolisce la loro capacità di perseguire penalmente casi di corruzione». Nel documento Democracy Index 2019, realizzato dall’unità investigativa del tabloid inglese The Economist, l’Ungheria è inserita fra le «democrazie imperfette» con un punteggio globale di 6.63 su 10, bocciata con 5.00 nella categoria «partecipazione politica». Il Paese registra, di anno in anno, un progressivo calo: nel 2006 aveva ottenuto un overall score pari a 7.53 su 10.
Fra i dati più aggiornati troviamo la relazione annuale Freedom in the world 2020 – riguardante diritti politici e libertà civili nel mondo – stilato da Freedom House. Viene evidenziato come «l’Ungheria ha sofferto la concentrazione del potere nelle mani […] del ministro Viktor Orbán […], perdendo 21 punti nella classifica Freedom in the world dalle elezioni del 2010 e diventando il primo Stato membro dell’Unione europea a essere classificato come “parzialmente libero”». L’Ungheria è anche il secondo Paese partially free con la maggior perdita dietro al Mali. Il quadro che emerge non è fra i più rosei e la situazione è aggravata dal fatto che, stando a quanto afferma Internazionale, le stesse «istituzioni europee hanno in qualche modo facilitato l’erosione della democrazia liberale in Ungheria», sia «attraverso la protezione offerta dal Partito popolare europeo» sia «tramite i ricchi sussidi europei attribuiti a Budapest». Qui entra in gioco un altro Stato membro Ue, come l’Ungheria appartenente al cosiddetto gruppo di Visegrád: la Polonia. Infatti, nonostante l’Unione abbia avviato una procedura per sospendere le sovvenzioni comunitarie, Orbán fa affidamento proprio sullo Stato polacco «per impedire l’unanimità necessaria per far scattare le sanzioni». La repubblica semipresidenziale guidata da Andrzej Duda presenta statistiche sulla corruzione leggermente superiori rispetto ai colleghi ungheresi: quarantunesimo posto con uno score di 58/100.
In realtà, secondo le analisi di The Economist, «nel 2019 la Polonia è scesa sotto l’Ungheria per la prima volta», raggiungendo un indice di democrazia di 6.62 su 10, in calo di oltre mezzo punto in rapporto al 2006. Infatti – si legge ancora nelle ricostruzioni del quotidiano londinese – «il partito nazionalista conservatore Diritto e giustizia (PiS) ha continuato i suoi sforzi per trasformare il Paese in una “democrazia illiberale”, anche vincolando l’indipendenza della magistratura e consolidando la proprietà dei media in mani polacche». Stesso giudizio arriva da Freedom House: da quando detiene la maggioranza Diritto e giustizia (del quale fanno parte, oltre al presidente Duda, anche l’attuale premier Mateusz Morawiecki e l’ex primo ministro Jarosław Kaczyński), ovvero dal 2015, «il punteggio della Polonia è sceso di nove punti», a causa dell’entrata in vigore di «una serie di misure per abbattere l’indipendenza giudiziaria, dominare i media e silenziare le critiche della società civile».
La recente crisi sanitaria ha avuto pesanti conseguenze anche in Polonia: l’eurodeputato belga Guy Verhofstadt denuncia che «proprio come Fidesz in Ungheria, il PiS in Polonia sta usando la crisi del coronavirus per minare lo stato di diritto». Per ridurre il rischio di contagio il presidente Morawiecki ha fatto votare, riporta l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), «una modifica alla legge elettorale che permetterà il voto per corrispondenza a chi ha più di sessant’anni o a chi quel giorno sarà in quarantena». Teoricamente si tratta di un atto non costituzionale: «La legge elettorale non può essere ritoccata così a ridosso del voto [che si terrà il 10 maggio, ndr]. Ma il Tribunale costituzionale, come in Ungheria, è di fatto un’espressione della maggioranza. Dunque, potrebbe convalidare quello che ai più appare come un colpo di mano dovuto al primato degli interessi di partito su ogni altra cosa, compresa la salute dei cittadini». Al 22 aprile, i casi confermati in Polonia ammontano a 10.169.
Le immagini: tabelle statistiche tratte dai rapporti Freedom in the world 2020 e Corruption perception index 2019.
Edoardo Anziano
(LucidaMente, anno XV, n. 173, maggio 2020)
Articolo molto ben fatto, riguardante una tematica della quale, purtroppo, si parla troppo poco.