Un racconto di amore ed emigrazione: “Il viaggio di Irina” di Valentina P.
Sono moldava e ho conosciuto Irina sul treno Bologna-Roma.
Nel marzo del 2007 dovevo partire d’urgenza per Chisinau. Il primo volo disponibile era da Fiumicino, perciò presi l’Eurostar da Bologna. Il mio posto era accanto a una bella, giovane donna. La sentii parlare al cellulare con una sua amica nella nostra lingua e la guardai incuriosita. Aveva un aspetto ben curato, i capelli castani lisci le arrivavano alle spalle, sul viso niente trucco, spiccavano solo le belle labbra color ciliegia. Le sopracciglia dritte erano di un nero corvino e sotto di essi ardevano due occhi color ambra scuro. Era vestita come tante giovani donne, con jeans, maglietta e giacca alla moda. Di solito sul treno le conversazioni scorrono facilmente, tanto per far passare il tempo.
Dopo che terminò la telefonata, le domandai:
«Scusa, sei della Moldavia?».
«Sì», mi rispose con un bel sorriso. «Anche lei?».
«Sì, pure io. In che città lavori?».
«Lavoro a Treviso. Faccio ore di pulizie nelle famiglie. Mio marito fa il muratore, lui lavora in Italia già da cinque anni».
«Ah, ho capito. Avete fatto il ricongiungimento familiare?».
«No, io sono venuta in Italia l’anno scorso, per conto mio, tramite un’agenzia. Che giorno è oggi? Vedi, sono qui già da più di un anno. Oggi vado alla nostra ambasciata a Roma e mi attende un incontro molto importante per me». Irina mi guardò tutta emozionata.
«Che incontro… con chi?» le domandai, vedendo nei suoi occhi le lacrime che brillavano.
«Devo incontrare l’uomo che mi ha salvato la vita nel viaggio verso l’Italia».
Irina fece un sospiro profondo e si toccò con il fazzoletto gli occhi per asciugarne le lacrime:
«Sì, lui mi ha salvato la vita» aggiunse con un sospiro. «E, se oggi sono qui e ho la speranza di rivedere i miei figli, lo devo proprio ad Anton. È cosi che si chiama».
Irina gettò uno sguardo fuori dal finestrino per raccogliere i propri pensieri, fece un altro sospiro profondo e proseguì nel suo racconto:
«Noi siamo originari di S… Lì abbiamo una bella casa, costruita insieme, con un bel giardino. E abbiamo tre figli,» aggiunse con orgoglio «due femmine di 15 e 14 anni e un maschietto di 10 anni. Perché io ho già 35 anni… davvero…».
La guardai con ammirazione. Quando parlava dei suoi figli le brillavano gli occhi e l’emozione la rendeva ancora più giovane.
«Mio marito Konstantin faceva il camionista, io l’infermiera all’ospedale. Ci siamo sposati con grande amore. Eravamo fidanzati da quando avevamo 15 anni Condividevamo tutto: si andava insieme a scuola, in chiesa… Noi siamo molto credenti e mio marito iniziava la giornata con una preghiera e la finiva sempre con una preghiera. La prima volta che ho fatto l’amore è stato col mio Konstantin e anche per lui è stato cosi. Eravamo tanto, tanto felici…. Tutti i nostri amici ci dicevano che eravamo una coppia unica. Crescevamo con fatica i nostri figli, però i problemi della vita non ci pesavano, perché eravamo d’accordo in tutto. La vita non era facile: si guadagnava poco, ma con l’aiuto dell’orto e risparmiando si tirava avanti.
Però sei anni fa mio marito rimase senza lavoro. Non riusciva a trovare niente e divenne molto triste. Un giorno mi disse che voleva andare con un amico in Italia perché lì si trovava lavoro come muratore. Arrivato, iniziò a lavorare e per tre lunghissimi anni non ci siamo rivisti. Konstantin mi mandava i soldi e i regali per i figli e una volta alla settimana mi telefonava. L’ultimo anno, però, quando lo sentivo al telefono, iniziavo a percepire nel tono della sua voce una tristezza indefinita. Non c’erano più le note di gioia nel sentire la mia voce. E, per di più, parlava con un tono… come se fosse colpevole di qualcosa… Ma di che? Per quanto mi tormentassi con questa domanda, non riuscivo a trovare una risposta.
Ed ecco che due anni fa, dopo la sanatoria, mio marito poté venire a casa per le ferie… Lo stavamo aspettando tutti con ansia: i bambini, i suoi genitori… non ti dico poi di me… Per tre anni che mi erano sembrati infiniti, non avevo visto il mio amato, né l’avevo potuto toccare, accarezzare… Non avevo fatto l’amore per tre anni… E, allora per questo incontro tanto desiderato, che sarebbe stato molto speciale, io dovevo essere bella, bellissima.
Il giorno del suo arrivo eravamo tutti all’aeroporto ad aspettarlo: le nostre due figlie e il figliolo vestiti di festa. Anch’io, per l’occasione, ero stata dal parrucchiere, avevo un abitino elegante e sandali col tacco alto. Gli ultimi sessanta minuti sembravano non passare mai. Ed eccolo che finalmente esce dalla porta del check out e si dirige verso di noi. Le ragazze si precipitano verso di lui, lo abbracciano, il figlio gli salta al collo e, così abbracciati, camminano verso la macchina.
Ed io… io rimango impietrita, immobile, perché loro passano accanto, e il mio amato marito neanche mi guarda. Non un abbraccio e neppure un bacio, proprio come se io non fossi stata lì in quell’istante. Rimango muta e incredula. Lo guardo e aspetto, pensando: adesso, adesso si accorgerà e si volterà verso di me… Niente.
Che cosa era successo? Che colpa avrei avuto io? Come descrivere il mio stato d’animo? Come se mi avessero buttato dal quinto piano… Tornati a casa nostra, durante il pranzo e davanti a tutti gli ospiti e parenti, cerco di trattenere le lacrime. “Calma, calma,” mi dico “abbi pazienza, stasera nella camera da letto chiarirai tutto”. Ma fino alla sera dovevo stringere i denti a far finta di niente.
La sera, quando tutti se n’erano andati via e i nostri figli erano già a dormire, ci troviamo finalmente soli nella nostra camera da letto.
«Siediti, Irina». Dicendo questo, Konstantin tende le sue mani verso di me, però non per abbracciarmi, ma per allontanarmi da sé. «Ti devo dire una cosa».
Un brivido mi trapassò da capo a piedi. Sentii di nuovo quel tono di voce colpevole che avevo percepito durante l’ultimo anno.
«Io non posso fare l’amore con te perché amo un’altra donna» mi rivelò tutto con un filo di voce e scivolò sul tappeto vicino al letto, davanti a me. «Non posso farlo» aggiunse piangendo.
Al sentire quelle atroci parole, scoppiai anch’io a piangere con diperati singhiozzi, senza poter più nascondere il mio dolore. Il mondo mi era crollato addosso. No, non era vero! Non avrei mai immaginato una cosa simile, né un dolore così, che mi divorava il cuore…
L’avevo sempre amato. Era stato l’unico uomo della mia vita. Volevo passare il resto della mia vita accanto a lui! La mia disperazione non aveva limiti. Piansi tutta quella notte.
Durante il mese in cui stette a casa mio marito mi raccontò tutta la storia con quella donna: che era disinvolta, esperta nell’arte dell’amore e bella. Era più grande di lui di ben nove anni…
Finito il mese di ferie, Konstantin tornò in Italia a lavorare. Io, invece, continuavo a tormentarmi e le notti non dormivo pensando a noi. Non potevo perdere mio marito così, senza aver provato a riaverlo. E allora presi una decisione: di andare in Italia per stare con lui!
Non è stata una decisione facile per me. Affidai i miei figli a mia madre. Avevo trovato una agenzia di viaggi che prometteva il visto per l’Italia e la partenza entro due settimane. Fui entusiasta! Non mi spaventava il costo: tremila euro. Sarà stato il prezzo giusto per l’urgenza! Mi preparai due borse di viaggio con indumenti e partii. Era inverno e faceva molto freddo.
Il momento della partenza è stato molto doloroso. Con lacrime e grande pena lasciai i miei figli e mia madre che piangevano.
Presso la sede dell’agenzia di viaggi ci fecero salire su un pulmino. Eravamo in dieci persone. Mi consegnarono il passaporto con un timbro di visto. Le istruzioni del direttore dell’agenzia erano molto rassicuranti: entro tre giorni saremmo stati in Italia.
Il giorno dopo arrivammo in un bosco e l’automezzo si fermò vicino a una baracca. L’autista ci fece scendere, lasciandoci alle cure di altri due uomini. Calata la notte, fummo condotti presso la riva di un grande fiume. Lì ci aspettava un gommone, sul quale salimmo. Sdraiati sul fondo, fummo ricoperti con un telo. Arrivati dall’altra parte del fiume, camminammo per tutta la notte. Verso l’alba arrivammo presso un’altra baracca, sempre in un bosco, però più grande della prima. La baracca era piena di gente che dormiva su panche di legno. A noi l’accompagnatore disse di rimanere lì ad aspettare.
Ci sistemammo anche noi nella baracca. Mangiammo tutti insieme dalle nostre riserve e bevemmo dell’acqua dal pozzo. Dentro però faceva freddo e non c’era neanche una stufa.
Durante il giorno, parlando con la gente che si trovava lì, venimmo a sapere che c’erano delle persone che stavano aspettando da un mese…
Passarono due giorni. Verso la sera venne un uomo per prendere il gruppo di Andrei. Il “gruppo fortunato” eravamo noi. Fummo accompagnati in una casa non lontano dalla baracca. Dentro era caldo e ci offrirono da mangiare e da bere a volontà, anche dei liquori. Io guardavo quegli uomini e pensavo: “Perché ci hanno tenuto lì affamati e in quel freddo? Non avevano un cuore, della pietà?”.
Finita la cena, ci fornirono le nuove istruzioni per il viaggio: si partiva senza bagagli, soltanto con documenti e panini da mangiare. Per me era inconcepibile partire senza niente: sono una donna, io, mi devo lavare, cambiare, oppure no? Sono partita con la mia borsa più piccola con le cose intime. Si ripartì di notte. Arrivammo a un canale di frontiera largo circa cinque metri. Tutti, attraversando a piedi il canale, si levarono i vestiti e li portarono sopra la testa. Una simile impresa sarebbe stata per me molto, ma molto difficile.
E allora Anton, che aveva lasciato i suoi bagagli, prese la mia borsa e la portò dall’altra parte. Ci rivestimmo in fretta e si ripartì. Iniziato il cammino, inciampai nel buio, slogandomi la caviglia. Mi faceva tanto male che non riuscivo a trattenere il mio “ahi” di dolore. Riuscivo appena ad appoggiare il piede a terra, figuriamoci a camminare al ritmo di tutti gli altri! Ero stata proprio sfortunata: avevo preso la borsa e adesso neanche ce la facevo a camminare. Pensavo che mi avrebbero abbandonata lì da sola nella notte con la mia borsa… Scoppiai a piangere disperatamente.
E di nuovo Anton mi venne accanto: con un braccio mi avvolse per la vita, quasi sollevandomi, per farmi camminare, con l’altra mano afferrò la mia borsa. Così fui in grado di continuare il viaggio. E quando oggi penso che, secondo le regole del viaggio, sarei dovuta rimanere lì, abbandonata – e chi sa che cosa mi sarebbe potuto accadere – mi viene la pelle d’oca.
Camminammo così per due giorni, facendo delle brevi fermate per riposarci e mangiare un panino.
«Allora di notte avete dormito… ma come?» la interrompo io. «D’inverno la terra è gelida…».
«Abbiamo dormito, sì… dormito sugli alberi».
«Come si può dormire sugli alberi?».
Irina fece un amaro sorriso:
«Quando si deve sopravvivere, ci si ingegna. Ci legavamo il girovita con una cintura attorno all’albero, per non cadere dai rami, quando ci si addormentava. La stanchezza è più forte di tutto e ti butti nel sonno anche abbracciato a un albero… E al mattino si ripartiva.
Ogni tanto, i ragazzi che ci guidavano prendevano in giro Anton dicendogli: “Ehi, Anton, ti stai sacrificando per una vecchia. Ti capiremmo se fosse una diciottenne…”. E io, sai, avevo trentaquattro anni! Anton mi diceva: “Dai, non farci caso. Sono giovani e stupidi. Andiamo, forza!”.
Per tutto il viaggio camminammo evitando i paesi, seguendo i sentieri sulle montagne in mezzo ai boschi. Nel frattempo, anche la mia caviglia non mi faceva più tanto male, grazie alla fasciatura che mi aveva fatto Anton con una delle mie canottiere.
Periodicamente le guide si avvicinavano alle strade per notare i segnali autostradali. Dopo, si collegavano al computer con le mappe del territorio, per capire dove ci trovavamo e come proseguire…
Ed eccoci finalmente in Italia! Eravamo vicini a un paese di confine. Un uomo del gruppo, Pavel, era già stato in Italia e parlava l’italiano. Lui si era offerto di andare nel paese per cercare un paio di taxi. L’idea era molto allettante, ma altrettanto rischiosa. Comunque venne accettata. Mentre Pavel stava andando nel paese, noi lo aspettavamo nascosti nel bosco. Una ragazza del gruppo, impaziente, era andata ad attenderlo vicino alla strada. Quando apparvero i taxi non credevamo ai nostri occhi. Pavel scese dal taxi e fece segni con la mano. La ragazza che stava lì salì in macchina. In quell’istante sentimmo le sirene delle macchine dei carabinieri che stavano sopraggiungendo.
Spaventati, iniziammo a correre: via, via da quel posto, senza sentire, né fare caso che i rami degli alberi ci sbattevano in faccia, graffiavano il viso, le braccia, il collo…
Il pericolo alle spalle ci dava la forza. Dovevamo scappare più presto, per non farci arrestare e correvamo senza guardare indietro, oramai che eravamo tanto vicini alla nostra meta. Dopo un certo tempo ci fermammo, sfiniti, col fiato in gola. Tristi ci guardavamo attorno: il nostro gruppo era diminuito. La ragazza e Pavel non erano più con noi. E noi non potevamo aiutarli.
Finito il riposo, riprendemmo il cammino. E quella stessa sera vedemmo in lontananza le luci di una grande città, che lampeggiavano nella notte…
Era Trieste! La nostra gioia era immensa. Saltavamo entusiasti, abbracciati, in una specie di danza: non potevamo gridare, né urlare per non farci scoprire: “Ce l’abbiamo fatta! E finito il calvario! Urrah!”.
Da Trieste vennero a prenderci con delle macchine e, dopo poche ore, rividi mio marito.
Adesso sto con mio marito. Abbiamo una stanza in affitto. Ho trovato il lavoro, ma non la felicità. Durante quest’anno poco è cambiato a mio favore. Mio marito continua a frequentare quella donna. E lei mi ha perfino telefonato per dirmi che è lei la donna giusta per Konstantin, perché è più bella di me, ha un corpo da modella e gli occhi azzurri… Ancora non sono riuscita a riconquistare mio marito e non so che fare. Però non perdo la speranza e lotterò per il mio amore».
Irina sistemò con un gesto rapido i suoi capelli lucidi. Poi scosse la testa, come se volesse allontanare i pensieri tristi, e concluse:
«Ma adesso voglio rivedere i miei figli che mi mancano tanto! E oggi vado alla nostra ambasciata a Roma per i documenti di viaggio. Colgo questa occasione per incontrare Anton al quale devo tanto… Lui è stato il mio angelo custode» concluse Irina con tenerezza.
A
scoltavo il racconto di Irina mentre il treno proseguiva attraversando le bellissime coline della Toscana. Mi venne in mente che spesso, durante i viaggi, le persone aprono più facilmente il cuore e le sofferenze dell’anima ad altri che non conoscono, che vedono per la prima e forse per l’ultima volta nella vita, forse proprio perché così non hanno paura di essere giudicati, oppure di fare soffrire il prossimo.
Nel frattempo il treno arrivò alla stazione di Roma. Scendemmo dal treno dopo esserci calorosamente salutate. E, mentre camminavo lungo i binari, vidi un uomo che si fermò davanti a Irina. Era alto, robusto, con chioma e baffi neri. Lui le accarezzava i capelli guardandola fisso negli occhi. Il suo sguardo pieno di tenerezza le comunicava qualcosa di importante… Era sicuramente lui, Anton. Ebbi l’impressione che stesse per iniziare una nuova storia d’amore…
Di argomento simile, LucidaMente ha pubblicato il racconto Sevdalinka dello scrittore Sergio Sozi. Inoltre segnaliamo la pubblicazione dei migliori lavori (vedi «E chi cazzo si porterebbe un seminarista in giro per Bologna?»; «Il vecchio cadde in ginocchio»; «Questo dicevano gli occhi di Silver a Totò») emersi al termine del Corso di scrittura creativa, organizzato dalla nostra rivista a Bologna tra aprile-giugno 2012 e tenuto, tra gli altri, dallo scrittore Roberto Pazzi, due volte finalista al Premio Strega.
Le immagini: murales della casa della cultura di Soroca, vista dei palazzoni di Chisinau, chiese, l’alluvione del 2008, cartine geografiche, bandiera moldave.
Valentina P.
(LM MAGAZINE n. 26, 15 ottobre 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 82, ottobre 2012)