Il numero di vegani è aumentato in maniera sensibile negli ultimi anni; quale sarà il motivo che spinge a seguire una dieta priva di derivati animali?
Oggi, nei Paesi più sviluppati, l’alimentazione comprende un alto consumo di proteine d’origine animale, ormai superiore al fabbisogno giornaliero per persona. In questo quadro s’inserisce il veganesimo, che elimina carne, pesce, latte, formaggio e uova. A volte si diviene vegani perché convinti sia più salutare, altre per rispetto nei confronti degli animali oppure in nome della salvaguardia ambientale.
Nell’ultimo caso, chi intraprende tale dieta lo fa in maniera conscia, consapevole che i cibi acquistati e posti sulla tavola comportano diverse implicazioni. Lo scopo è perseguire un benessere comune e arginare problemi come le emissioni di gas serra, la deforestazione e il consumo idrico. La relazione tra ambiente e nutrizione dell’uomo è ben spiegata nel documentario Cowspiracy, a opera dell’attivista Kip Andersen e del regista Keegan Kuhn. I due intervistano diversi esperti: dottori, ricercatori, allevatori e giornalisti, a proposito dell’impatto che ha l’industria zootecnica sull’ambiente. Hanno raccolto dati a centinaia, fornendone le fonti sul sito www.cowspiracy.com. Dalla loro ricerca emerge che l’allevamento intensivo di bestiame è responsabile per il 51% del cambiamento climatico e per il 30% del consumo d’acqua mondiale. Inoltre, è colpevole per il 91% della distruzione della foresta amazzonica e occupa il 45% del territorio terrestre.
Dunque, la zootecnica è una fonte smisurata di gas serra: il metano emesso dai bovini è 86 volte più distruttivo della CO₂ dei veicoli. Come se non bastasse, è necessario tenere presente quante risorse vengono impiegate. Ad esempio, lo spazio occupato da un allevamento comprende sia il terreno da pascolo sia quello delle coltivazioni di foraggio e cereali destinati al nutrimento del bestiame stesso. In ugual modo anche l’impiego dell’acqua aumenta, visto che se ne consuma per dissetare gli animali e per coltivare il loro mangime. Per produrre un hamburger di 100 gr servono 2.500 l d’acqua.
Un’alimentazione vegana perciò produrrebbe metà anidride carbonica rispetto a una dieta onnivora, consumerebbe un undicesimo della quantità dei combustibili fossili, un terzo dell’acqua e un diciottesimo della porzione di terreno. Gli autori di Cowspiracy forniscono queste conclusioni, ma, come loro, anche altri sono giunti alle stesse considerazioni. Ad esempio, la giornalista Chelsea Whyte, che, nel descrivere la sua esperienza vegana (Living on veg: should we all go vegan?), affronta però anche altri aspetti. Uno dei più importanti: le giuste sostituzioni. Infatti, chi decide di diventare vegano è quasi obbligato, per la propria salute, a informarsi in maniera accurata sull’assunzione (non animale) dei diversi elementi nutritivi. Come le proteine da assumere attraverso lenticchie, quinoa e tofu; gli omega 3 presenti nei semi e nelle frutta a guscio. Ancora, la vitamina B12 integrabile con cereali fortificati e lievito alimentare; il calcio nelle verdure verdi e il ferro assimilabile mangiando (di nuovo) legumi, verdure verdi e semi. Quindi non sembrano sorgere problemi fisici per il soggetto (adulto), purché sia informato sulle corrette sostituzioni da effettuare.
La difficoltà può essere tutt’al più psicologica. Il rinunciare ai sapori della propria cultura e tradizione potrebbe presentarsi, nel tempo, più arduo del previsto (alcune testimonianze). Diverse persone, infatti, da vegane sono tornate onnivore. Questa “retrocessione” però non cancella la presa di coscienza a proposito degli effetti politici, sociali, economici connessi all’acquisto del cibo. I dati raccolti non si dovrebbero comunque ignorare: essere vegano apporterebbe diversi benefici alla sostenibilità della vita sulla Terra. Augurandosi che il fattore tendenza non lo trasformi in puro business e conduca a conseguenze al momento non ipotizzate o vagliate.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XIII, n. 152, agosto 2018)