Quando è tardi scivolano lievi per le calle e i canali di Venezia i fantasmi che animarono storie e leggende. Non è difficile incontrarli, specie quando la bruma si alza dai canali e arriva sin sulle fondamenta, avvolgendo cose e persone della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
I fantasmi sono proiezione ectoplasmatica di pensieri, emozioni e dolori delle persone che morirono improvvisamente. La loro vita fu spenta di colpo e la loro esistenza legata ad eventi drammatici. Si diventa fantasmi quando non si è pronti alla morte oppure quando il dolore della vita è più forte dell’oblio della Consolatrice. Ma quante saranno queste vite smorzate dal dolore? Quante palpitanti fiammelle svanirono senza un senso e una ragione? Tantissime, ahimé! Facciamo conto che in una città di centocinquantamila abitanti (tanti erano a Venezia nei secoli che furono) muoia il 2%25 degli abitanti per ciascun anno. Ovviamente questo è un tasso demografico valido per i nostri giorni ma sicuramente molto prudente per i secoli scorsi, se consideriamo, per esempio, che a Venezia durante la Peste Nera (1347-1349) morirono i tre quinti della popolazione. Ma diamo per buono questo dato. Ora di queste tremila persone non ce ne saranno almeno trecento la cui morte disperata abbia trasformato in fantasmi? Moltiplica questo numero per i mille anni di storia della Serenissima ed avrai almeno trentamila fantasmi, anime vaganti sperse per le calli.
Ma questo – potrebbe dire qualcuno – non succede in tutte le città del mondo? No! I rumori, il traffico e l’indifferenza (anche i cellulari dicono alcuni) fanno morire i candidi ectoplasmi di una morte seconda più dura. Non esistono mica fantasmi a New York, che io sappia (e se qualcuno li ha visti me li presenti allora!).
E manco a Mestre e Padova. Invece qualcuno si aggira per il Polesine (ma questa è un’altra storia).
I fantasmi stanno bene a Venezia, è il loro habitat. Salgono dai canali, si camuffano tra la gente, nessuno li nota. O, almeno, non sempre li si nota. A volte li incontri, li saluti anche. Non sai mica che sono fantasmi.
Come quella vecchina dai capelli bianchi che incontravo in Calle degli Assassini. La vedevo ogni giorno, alle sette di sera, bassina, macilenta, muoversi con passo incerto; mi guardava e mi salutava con un sorriso buono, poi si rintanava in una porticina che si apriva su un muro. Questo fatto, che parrebbe banale per la sua normalità, assunse un sicuro valore di eccezionalità per la diuturna costanza nel tempo. Per circa venti anni la vecchina mi incontrava e mi salutava, nella calle, ogni sera, d’estate e d’inverno.
Era divenuta una unica costante nella mia vita, per il resto tormentata da burrascose vicende. Io invecchiavo, venivano fuori capelli bianchi, mal di schiena e altre acciacchi che l’età non disdegna di donarci. La vecchina, macilenta ma sempre uguale a se stessa, sembrava dovesse rendere l’anima a Dio da un momento all’altro, continuava a guardarmi con il suo sorriso benevolo, serrato, per non fare trasparire una bocca che immaginavo sdentata. Reiteratamente, giorno dopo giorno, mi salutava con il suo sorriso, senza mai proferir parola.
Questo si ripetè per circa venti anni.
Poi sparì.
Quando non la vidi più per la prima volta ebbi una sensazione simile a quella che dovettero avvertire gli uomini primitivi alla prima eclissi di sole. Paura e sgomento per un fenomeno incomprensibile. Poi razionalizzai la cosa. “E’ evidente” mi dicevo serioso “che prima o poi doveva morire, povera vecchia”. E avvertii dentro di me la vergogna. Per non aver mai scambiato parola al di là di quel sorriso freddo e compassato. Per non averle mai chiesto come stava, se aveva bisogno di aiuto, compagnia. Insomma per non avere instaurato un contatto umano. Mi resi conto che per tutti quegli anni l’avevo considerata niente di più che un fenomeno per la sua longevità e metodicità.
Probabilmente – mi resi conto solo allora – era una di quelle persone che serbano un unico aspetto per tutta la vita. Giunta ai sessanta avrà assunto quella figura esteriore che avrà conservato per altri venti anni. D’altronde, se vedi una persona ogni giorno, non ti accorgi del suo invecchiare. Avevo costruito una leggenda su una storia normale, forse una triste storia di solitudine e fatica.
Avvertii l’orrore per la mia aridità e andai alla ricerca di informazioni sulla vecchina.
Cercai il pertugio nel muro ove la vedevo rientrare. Ma non esisteva più. Il bel muro di mattoni rossi antichi, che si estendeva per qualche metro, non aveva apertura alcuna. Né poteva essere stato richiuso, dal momento che era evidente che quella parete era in quello stato da almeno un paio di secoli. Chiesi informazioni in giro su una vecchietta “così e colì”. Ma nessuno l’aveva mai vista, né tanto meno sapeva chi fosse.
Non ci stetti poi tanto a lungo a pensarci. Succede spesso che la memoria elimini le cose che non riesce a spiegarsi. Poi, qualche anno dopo, in un libro di leggende veneziane scritto nel Settecento, appresi, per caso, che, in Calle degli Assassini, dimorava una vecchia che si diceva facesse fatture, sortilegi e filtri d’amore e che “per queste e altre ragioni tenuta in conto di strega fu fatta abbruciare viva nel 1549 A.D.”.
Allora non ebbi più dubbi.
Anche la festa del Santo patrono di Venezia, san Marco, è collegata a un fatto drammatico e a un fantasma.
Come noto, il 25 aprile (san Marco) la tradizione impone agli innamorati di donare alla loro bella un bocolo di rosa rossa. Questa tradizione nasce da una leggenda che è anche un fatto storico. La vicenda avvenne presumibilmente nell’anno 804 e narra della storia d’amore tra la nobile Maria Partecipazio e il trovatore Tancredi. Erano anni, quelli, in cui Venezia si barcamenava tra una fredda fedeltà a Bisanzio, controbilanciata da una diffidente attenzione nei confronti dei Franchi che, sconfitti i Longobardi, erano praticamente alle porte. In città la situazione non era molto tranquilla, dal momento che si succedevano i partiti che parteggiavano o per i Franchi o per i Bizantini. Il fatto è che tali partiti non è che rimostrassero le proprie ragioni in maniera molto pacifica (ancora non esistevano campagne elettorali, spot televisivi, manifesti e altre forme di inciviltà democratica), ma con spietate esecuzioni delle parti avverse che avvenivano nelle forme più crudeli. Al tempo dei fatti che ricordiamo deteneva il potere il partito filofranco del doge Obelerio. Maria Partecipazio apparteneva alla nobiltà veneziana filofranca e quindi in gran auge in quel momento. Questo costituiva però un ostacolo insormontabile all’amore della giovane con il bel trovatore, il quale era spiantato come tutti gli artisti e senza neanche una goccia di sangue blu. Fu così che il giovane, per procurarsi nobiltà e denari, che la sorte spontaneamente non gli aveva voluto elargire, si arruolò nell’esercito dei recenti alleati. Andò a combattere, insieme a re Carlo, Orlando e gli altri paladini, in Spagna, contro l’esercito dei Mori. Ma – si sa – chi è nato per i versi e la musica non può essere un buon combattente. Fu così che Tancredi morì, combattendo più o meno valorosamente, e il suo sangue impregnò un roseto di rose immacolate che divenne purpureo. Prima che la morte giungesse, Tancredi ebbe il tempo di offrire un bocciolo rosso al paladino Orlando perché lo portasse, come pegno di un impossibile amore, all’amata Maria. L’infelice giovane però non resse al dolore e fu trovata morta il mattino dopo (era il 25 aprile), con la rosa abbandonata sul petto.
In quei tempi le fazioni filobizantine avevano dimora presso l’isola di Malamocco che allora era la capitale della Venetia lagunare. La fazione filofranca invece insisteva sulle isole del Rivoalto (attuale Rialto). La casa dei Partecipazio si trovava sul lato destro del Canal Grande, di fronte, poco più avanti, a quell’insula in volta di Canal, su cui, all’apice, verrà edificato il nobile palazzo destinato ad essere acquistato e restaurato dal doge Foscari, alla fine del XV secolo, e infine a prenderne il nome. La casa dei Partecipazio era collocata quindi più o meno ove attualmente si trova Ca’ Garzoni e Moro.
Come dirò più avanti, ho pochi dubbi in merito alla trasformazione di Maria Partecipazio in un fantasma.
Mi trovavo in calle Garzoni, la calle che si percorre per accedere al traghetto che conduce all’altro lato del Canale. Era una sera primaverile, quasi calda, quando uno spettacolo assolutamente inconsueto si presentò ai miei occhi. Ca’ Foscari, dall’altra parte del Canale, era di dentro completamente illuminata e, vista da lì, pareva una casa di bambole, quelle fatte di carta e cartone, in cui al suo interno, da bambini, si metteva magari una lampadina per renderla più bella e suggestiva. Le luci, filtrando dalle vetrate, assumevano colori che andavano dal verde, al verdastro, al cremisi. Effetti cromatici ancora più stupefacenti assumevano quelle tonalità quando si tuffavano nel Canal Grande, le cui acque rifulgevano come un cielo pieno di stelle.
La razionale constatazione che, dietro a tale spettacolo, altro non ci fosse che la pragmatica esigenza di accelerare i lavori di restauro del nobile palazzo, al fine del rispetto dei tempi di consegna, non diminuiva per niente l’incanto che la visione induceva.
Ma quale non fu la mia sorpresa fu quando mi avvidi che accanto a me, come me incantata, osservava lo stesso spettacolo una donna, bella, leggera negli anni. Vestiva completamente di bianco, come fosse una sposa, e un velo, che le avvolgeva interamente il capo, non lasciava sfuggire neppure una ciocca di capelli. Il viso, invece visibile se pur all’incerta luce del lampione, apparteneva a una giovane quasi adolescente e palesava un algido pallore. L’abito era di fattezza inconsueta, di un tessuto molto bello ma tanto fragile che pareva di garza e dava la sensazione che si potesse stracciare al semplice tocco. Mi ricordava il vestito che vidi indosso alla sposa sepolta e mummificata presso le catacombe dei cappuccini a Palermo.
“Signora,” le dissi (ma nel mio intimo mi rivolgevo a me stesso) “il suo aspetto riempie il mio animo di inquietanti timori. Ma di sicuro ci deve essere una spiegazione a questa apparizione e a questo inconsueto abito. Forse che lei, abbandonata d’improvviso una festa in maschera per noia o per delusione, si è ritrovata come me in questa calle alla ricerca dell’ultimo traghetto?”.
Non mi rispose subito, ma mi rivolse lo sguardo, recando come dono un sorriso buono ed enigmatico. Lo stesso sorriso che per circa venti anni avevo fissato sulle labbra di una certa vecchina in Calle degli Assassini. Adesso lo capivo: era il sorriso di chi oramai può comprendere tutto della vita perché questa mai più gli appartiene.
Quando aprì la bocca le parole le uscirono con qualche fatica. Come succede a chi non parla da un lungo tempo.
“Non cerco traghetti oramai”, disse. “Traghettai già in un tempo remoto”.
“Signora, le sue parole mi inducono a pensare che questa sia una incredibile notte, notte di misteri impenetrabili. Sempre che tutto questo non sia una celia, e magari intravedo gli amici nascosti nella tenebre a ridere e burlarsi di me”.
“Io son Stefania e come tu mi vedi vissi nel tempo che a Venezia era principe un Alvise”.
“Dunque sei morta? E allora perché e come sei qui ritornata? Forse che a straziare con il tuo orrore chi vive ancora può esserti di conforto?”.
“La gioia dell’illusione di una vita è l’unica ragione per cui qui mi vedi”.
“Ma dimmi, allora, come fu che quel passo, da cui nessun può mai tornare dietro. Tu lo percorresti a ritroso e ti ritrovi a discutere e parlare come se fossi essere vivo e di carne viva?”.
“Quel passo è un tunnel buio e stretto dove alcuni possono mirare ciò che succede nell’altro mondo e a volte, per circostanze mirabili, è possibile, seppur per poco, transitare dall’una all’altra parte”.
“Ma tu dove vivesti e come e quando ti fu sottratta la vita, che così giovane appari al mio sguardo?”.
“Io abitavo in quel palazzo che si trova alla mia destra. Ero di nobile famiglia e, come succedeva in quell’epoca, fui concessa ancora bambina come sposa a un nobile signore”.
“Eri felice al tempo?”.
“No! Egli era brutto e vecchio, ma la rassegnazione mi aveva indotto ad accettare la sorte. Certo non più triste di finire in un convento di suore”.
“Il tuo abito mi induce a pensare che lo sposasti dunque?”.
“Mai più! L’amore vero io lo nutrivo verso un villanello che lavorava in palazzo. Anche lui mi amava e volemmo, poco prima del matrimonio, concederci amor più pieno. Indossato l’abito da sposa, lo feci entrare nella mia stanza e qui lasciammo alla bramosia sopruso”.
“E cosa concesse il fato a voi amanti?”.
“Fummo colti sul fatto dai parenti miei e del promesso sposo. La scandalo non poteva essere più evitato”.
“Una tragedia in quel tempo!”.
“Il mio amore fu ucciso, io credo, e io richiusa in un camerino buio e senza finestre. Trascorsero molte giornate poi la porta fu tolta e l’accesso fu murato con mattoni”.
“Murata viva!”.
“Sì, fu lasciato solo un piccolo pertugio da cui veniva fatto passare un vassoietto con del cibo. La luce veniva da una piccola bocca di lupo che dava all’esterno del palazzo. Attraverso questa potevo guardare solo in basso verso il Canale”.
“E per quanto vivesti in queste condizioni?”.
“Non era vivere! Soprattutto soffrivo di non poter scrutare il cielo e le stelle. Fino a quando non avvenne un miracolo”.
“Miracolo?”.
“Sì, una notte vidi apparire sotto il canale un altro cielo stellato. Poi mi apparve una donna. Anche lei aveva subito una sorte dolorosa per amore in quello stesso luogo”.
“Maria Partecipazio!”.
“So la sua storia ma non conosco il nome. E questa donna mi disse: “Andiamo, ora è tempo di morire”. “Mai più dunque” le risposi “potrò vedere sulla terra, il cielo e le stelle?”. “Tornerai” mi disse “ogni volta che sotto il Canale risplenderà un cielo stellato””.
“Come stasera allora?”.
“Sì, come stasera”.
Dette queste parole si avvicinò al Canale e leggera, come sono leggeri i fantasmi, lo attraversò dirigendosi verso Ca’ Foscari. La osservai per un lungo tratto fino a quando non la vidi più, svanita tra quelle luci riflesse, riflesso anche lei di una storia sconosciuta di un antico passato.
Nel 1574 Enrico III di Valois, novello re di Francia, fu ospitato dal doge Alvise Mocenigo, nel palazzo di Ca’ Foscari. Per festeggiare l’evento furono fatti ardere una infinità di lumicini, forgiati in tutte le forme, su tutte le finestre e i tetti delle case che davano sul Canal Grande, da San Marco sino a Santa Lucia. Il Sansovino, che assistette all’evento, ci dice che “perché tutti i lumi riflettevano nell’acqua con lo splendore, pareva che sotto il canale ci fosse un altro cielo stellato” (Francesco Sansovino, Venetia città nobilisima e singolare).
Mentre Enrico III di Valois si affacciava alla polifora di Ca’ Foscari per ammirare lo spettacolo, in un palazzo quasi di fronte moriva, oramai serena, una giovane donna vittima dei tempi e del suo amore precluso.
(Ghost in Ca’ Foscari)
Antonio Tripodi
L’autore scrive sulla rivista Mobilità. Si preoccupa di approfondire in particolare le problematiche inerenti la disabilità e l’alterità in genere. I suoi vari articoli si concentrano sul rapporto massmediologico esistente tra cinema e disabilità. Ha scritto anche numerose recensioni pubblicate sulla rivista libraria Rnotes e sulla rivista elettronica Scriptamanent.net. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste di settore. Storico del fumetto: collabora alla rivista elettronica UBC fumetti. Sceneggiatore: realizza soggetto e sceneggiatura, per conto dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, di Nel paese delle differenze, un fumetto sulla disabilità, con i disegni di Luca Enoch.
IL COMMENTO CRITICO
Se teniamo conto dei dati forniti dal censimento del 2001, il comune di Venezia ha una popolazione di circa 266.000 abitanti, la maggior parte dei quali vive però sulla terraferma (nelle località di Mestre e di Marghera).
Meno di un terzo dei cittadini abita ormai nel centro storico, ossia nell’arcipelago lagunare formato da più di cento isolette e da oltre 160 canali, anche se milioni di turisti vi transitano abitualmente. Tuttavia, tra gli effettivi residenti non vengono mai conteggiati altri, impalpabili, veneziani…
Tra storia e fantasia – Chiunque si trovi all’imbrunire a passeggiare tra le “calli”, a sostare nei “campi” e o a navigare lungo i “rii” di Venezia – lontano però dalla ressa dei flussi turistici -, proverà l’insolita sensazione di essere immerso in un paesaggio incantato, permeato da fascinose vestigia e da ineffabili presenze. Questo stato d’animo si riscontra nel racconto “fantastorico” di Antonio Tripodi, in cui l’io narrante esperisce la presenza dei fantasmi lagunari e, attraverso insospettati “poteri medianici”, entra addirittura in contatto con alcuni di loro. Le figure evocate – due donne, accomunate da una tragico destino, che le ha rese “anime vaganti” – contribuiscono a rimembrare gli splendori e i drammi della “Repubblica Serenissima”, per secoli grande e solida potenza marinara. Il racconto è ricco, infatti, di riferimenti storici, alcuni veritieri, altri certamente immaginari, ma comunque sempre verosimili. La dolorosa vicenda della “vecchina, macilenta ma sempre uguale a se stessa” ci riporta ai tempi bui della Controriforma, quando si riaccese la “caccia alle streghe” anche nella munifica Venezia (e si perseguitarono liberi pensatori, come Giordano Bruno). Allo stesso modo, l’altrettanto tragica vicenda dell’eterea Stefania finisce per intrecciarsi con la visita fastosa del re francese Enrico III, nel periodo in cui la Repubblica veneta era costretta a stipulare alleanze con le grandi potenze europee, affinché, oltre a tutelare la propria indipendenza, fosse aiutata a difendere i suoi ultimi possedimenti nel Mediterraneo orientale, minacciati dall’espansione dell’impero ottomano.
Un bocciolo di rosa rossa – Tornando ancora più indietro nel tempo, l’autore svela anche l’arcano rituale del bocciolo di rosa rossa che viene donato tra gli innamorati in occasione della festa di san Marco. Viene così narrata la struggente “storia d’amore tra la nobile Maria Partecipazio e il trovatore Tancredi”, assimilabile alle storie di altre leggendarie coppie di infelici amanti (Paolo e Francesca, Romeo e Giulietta, Tristano e Isolde). Amori preclusi, crudeli vendette, insulse persecuzioni, tenebrose presenze: il racconto di Tripodi produce nel lettore un senso di angosciosa inquietudine, inducendolo a riflettere sul triste cammino intrapreso nei secoli dall’umanità e sulle insensate sofferenze che gli uomini hanno inflitto ai propri simili. Ma la speranza non manca: la ricomparsa di Stefania “ogni volta che sotto il Canale risplenderà un cielo stellato” ci appare simbolicamente come l’auspicio di una rigenerazione del mondo (e della stessa Venezia, maltrattata dalle insidie del tempo e dall’insipienza umana), che ci liberi infine dalle incertezze e dalle paure che rendono assai problematico il futuro.
L’immagine: un’immagine tratta da Jean Gir. Il Nuovo Moebius, Editori del Grifo (1984).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno II, n. 14, febbraio 2007)