Atmosfere minimaliste alla Raymond Carver in “Crisalide” (Il Filo), romanzo breve dello scrittore bolognese Vincenzo Bonicelli Della Vite
«Casco dalle nuvole e mi chiedo che diavolo succede: con l’ingresso nell’euro siamo tutti più poveri, niente funziona più come prima tranne il sesso che è sempre più facile e più libero, le aspettative di vita si sono allungate, le donne emancipate, trovare casa è un’impresa da ricchi, tutto sembra spingere verso il disimpegno e la libertà personale e i miei più cari amici, da sempre scapoloni impenitenti, decidono improvvisamente di sposarsi, in contemporanea e per lo stesso giorno! Qualcosa è maturato dentro di loro ma non so dire cosa, come e perché e voglio saperlo invece, riguarda anche me. Soprattutto me. Debbo sapere assolutamente di cosa stiamo parlando, che cosa ci nasconde la realtà quotidiana, maniaco come sono di scavare sotto le apparenze».
(Vincenzo Bonicelli Della Vite, Crisalide, Roma, Il Filo, pp. 31-32)
La decisione dei propri amici, le coppie Marco-Valeria e Bob-Lula, di sposarsi in contemporanea il giorno di San Valentino scuote e turba la vita di Max, personaggio-voce narrante del romanzo breve Crisalide (Il Filo, pp. 64, € 13,00), e lo costringe ad analizzare e a ripensare se stesso e la fauna umana che lo circonda. L’autore, il bolognese Vincenzo Bonicelli Della Vite (da leggere pure il suo Verità nascoste, edito da Cicorivolta), attraverso i sette brevi capitoli che compongono il libro, traccia un quadro freddo e “oggettivo” – anche grazie all’uso dell’indicativo presente alternato ai tradizionali tempi passati della narrazione – di uomini e donne borghesi occidentali del XXI secolo, nel contesto del capoluogo emiliano in cui vivono (pur con spostamenti “globali”, dalla Cina ai Paesi Bassi), e dei loro rapporti di coppia, continuamente minati dal solipsismo e dai tradimenti.
L’eros, infatti, è molto presente nell’opera, con esplicite descrizioni dei desideri e degli atti amorosi compiuti dai vari personaggi. Il tono predominante, tuttavia, non è gioioso, vitale. Predomina un’atmosfera plumbea, una costante sensazione di vuoto esistenziale, che ci ha ricordato il minimalismo di Raymond Carver o le epifanie contenute ne I morti (The Dead, da Gente di Dublino) di James Joyce. Simile a quello del racconto del letterato irlandese è il tono elegiaco, stanco, sommesso, della scrittura di Bonicelli Della Vite. Frequenti le disincantate osservazioni sul danaro e sui bisogni materiali: «Il destino di noi tutti, uomini e donne senza distinzione, sembra soccombere alle necessità economiche, le rate da pagare e le bocche da sfamare, i progetti da realizzare e le comodità da mantenere o aumentare, punti di riferimento condivisi. Nel “fuori programma” rimangono la fantasia, la mistica del sentimento: ci sfuggono finché non ci accorgiamo che noi siamo vittime mortali».
Così, sotto l’apparenza leggera di futili vite, sazie e gaudenti, trapela, perturbante, l’inquietudine esistenziale: «Lo specchio nascosto ferirà crudelmente il nostro sguardo mostrandoci i segni profondi della nostra insoddisfazione, i pori aperti della nostra solitudine. Allora saremo persi, per un momento inermi davanti alla nostra paura». L’angoscia fuoriesce in forma magmatica soprattutto negli incubi ricorrenti della voce narrante, con la paura della morte che si mostra in tutta la propria violenza repressa, e nelle varie riflessioni che attraversano il testo. Insomma, anche a Bologna, nel passaggio da un millennio all’altro, è avvenuta una terribile trasformazione. Una perdita alla quale è impossibile rimediare: «La bicicletta bastava per muoversi e arrivare dove volevi senza pericolo per la tua incolumità, il tempo bastava a fare tutto e a non perdere niente di importante […]. Ora l’esclusione non ti viene dagli altri, ma dalla vita modificata: solo movimenti essenziali per non rimanere incastrati nel traffico, percorsi alterati e obbligati per non violare le regole urbane di limitazione di tutto ciò che si muove. Ma proprio tutto».
Riassumendo, un romanzo tutt’altro che banale, una scrittura talvolta affascinante, una narrazione tutta intenta a cogliere le dinamiche di coppia, l’intimità psicologica dei personaggi, entro la quale la scansione dettagliata dei corpi si unisce a quella del mondo interiore, mostrati entrambi sotto una luce algida e spietata. Un’elegia senza un calore, un chiarore, neppure intravvisto in lontananza: «Vita e morte non possono conoscersi mai, l’una invisibile all’altra, ma forse i morti non hanno bisogno di vedere i vivi, il corpo non conta più, e i vivi pur non vedendo la morte sanno che l’incontreranno lungo la strada, avendone il presentimento vago e atemporale come d’una destinazione ignota avvolta nel silenzio più oscuro. Tutto tacerà, non ci saranno più confini tra cielo e terra, luce e buio, silenzio e rumore, un unico indistinto nulla che è tutto ma negazione di tutto, affermazione di tutto il mistero dell’universo».
I due matrimoni programmati salteranno, ovviamente, come tutto ciò che sembra deciso superficialmente, per “carineria”. E nutriamo il dubbio che la svolta esistenziale finale di Max – che motiva il titolo Crisalide e che non riveliamo, lasciandone la scoperta al lettore – sia davvero sincera e palingenetica.
Rino Tripodi
(LM MAGAZINE n. 24, 18 giugno 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 78, giugno 2012)