Il narratore che ha rappresentato Dante nelle vesti di investigatore discorre con ironia di letteratura, esoterismo, D’Annunzio e altro
Giulio Leoni, romano dalla barba folta (www.giulioleoni.it, sito frequentatissimo), è uno scrittore atipico, pochissimo affetto dai sintomi del successo, che si addentra con simpatia tutta cittadina nei rapporti umani, sembrerebbe con la stessa disinvoltura con cui scrive i suoi romanzi, noir e thriller, generalmente ambientati nel passato. Dietro quella barba c’è ironia e anche tanta romanità, quella che permette di guardare al mondo con una certa ostentata indifferenza. Ma Leoni non è solo uno scrittore, è uno scrittore che lavora (cosa a volte rara): ha fondato una rivista, Symbola, dedicata alla poesia sperimentale e alla ricerca estetica contemporanea, ma, dopo numerosi e vari articoli scientifici e divulgativi, e un’incursione nell’organizzazione aziendale, ha sentito il bisogno di raccontare, di immergersi nel grande mare della storia e di rimestarla, sempre con rispetto, ma anche con tanta fantasia, per trarre da una materia spesso considerata inerte un mondo pieno di fermento. I suoi libri sono letti, diffusi e tradotti in numerose lingue e si dice anche che abbia scritto con lo pseudonimo di J. P. Rylan (Il trono della follia e Il santuario delle tenebre, entrambi editi da Mondadori); ma lui non ha mai confermato.
Ecco l’intervista ironica che l’autore de La regola delle ombre (Mondadori), inventore del Dante investigatore, ci ha rilasciato su scrittura, letteratura, esoterismo, reality show e vari altri argomenti.
A noi lo può dire, però, se J. P. Rylan sia davvero lei…
«Non confermo e non smentisco, secondo la migliore tradizione!».
Caro Leoni, a me sembra già un’ammissione, un mezzo scoop, ma andiamo avanti… Antico come l’uomo, il bisogno di raccontare, prima ciò che è accaduto realmente e poi ciò che potrebbe accadere, sembra far parte di tutte le culture. Non a caso lo stesso Ulisse davanti a re Alcinoo iniziò dicendo “Quel che più brami / sapere, io toccherò”, mettendo l’accento sulla necessità dell’uomo alla narrazione e alla conoscenza. Da cosa nasce questa necessità?
«La narrazione nasce come celebrazione delle gesta degli eroi. E questo sia per fondare il sistema valoriale della comunità, sia nel profondo per attenuare il sentimento d’impotenza e di finitezza che si accompagna alla scoperta della nostra mortalità. Non a caso la narrazione di gesta celebra sempre la vittoria sulla morte, e l’ascesa dell’eroe in un non-tempo mitico che lo pone al riparo dalla degradazione entropica dell’esistenza. L’atto di assistere allo sviluppo della vicenda, che nelle comunità primitive assurgeva spesso al rango di vero e proprio rito, associa simbolicamente il celebrante all’apoteosi dell’eroe. Raccontare e ascoltare il racconto in definitiva è entrare a far parte degli eroi. In questo senso il racconto d’avventura è la madre di tutte le narrazioni, in quanto ripropone in un quadro simbolico-metaforico i tratti base dell’uomo: un essere finito che si muove all’interno di uno spazio delimitato, vincolato da regole che gli consentono di esperire una limitata visuale del campo d’azione e sottoposto ai vincoli di un orizzonte temporale estremamente breve. Ogni narrazione è narrazione d’avventura: anche la letteratura “alta”. Potremmo definirla la variante borghese del racconto d’avventura, una narrazione di esplorazione in cui l’asse orizzontale dello spazio si sostituisce con quello verticale della psiche. L’impressione di maggiore attendibilità che si ha leggendo un romanzo mainstream deriva in gran parte dal condizionamento mentale del lettore. A noi “sembra” che il salotto di madame Bovary sia più vero della foresta incantata di Broceliande, semplicemente perché le nostre categorie di interpretazione della realtà sono ancora più simili a quelle di Flaubert che non a quelle di Geoffroy de Monmouth. La pretesa superiorità del racconto di impianto realistico su quello fantastico deriva in definitiva soltanto dal nostro angolo di prospettiva».
Lei ha spesso dichiarato o scritto di aver tratto ispirazione dalla materia esoterica. Ci parla di questo incontro?
«Chissà, forse la causa di tutto risiede nell’influsso di un mio prozio, che fu spiritista di una certa fama tra le due guerre! Solo dopo sono venuti l’incontro con la filosofia del Rinascimento, il Corpus hermeticum e il resto. In realtà il mio interesse per la materia sorge a contrariis: perché gli uomini in ogni epoca hanno dedicato gli sforzi più nobili alla costruzione di sistemi di pensiero che violano chiaramente il buon senso, la logica e l’evidenza scientifica? Perché io stesso osservo affascinato una sfera armillare, mentre trovo tutto sommato banale il modello copernicano? Credo che in fondo questo derivi dal fatto che oltre il novanta per cento di ciò che governa le nostre vite non si vede. E noi cerchiamo di riempire comunque questa oscurità di forme. Tra l’altro con risultati di inatteso successo, tanto che la storia è mossa in definitiva sempre dalle idee errate».
In questo mondo storico in fermento, che lei spesso rappresenta con la vivacità di una fotografia scattata ieri, ha poi ritrovato Dante Alighieri. Ne ha riscoperto la vitalità moderna del profilo, la lucidità della mente e anche l’ironia e l’irriverenza verso il suo stesso tempo in testi, ormai un cult del fantasy dantesco, come Dante Alighieri e i delitti della medusa (2000, vincitore del premio Tedeschi), I delitti del mosaico (2004), I delitti della luce (2005) e La crociata delle tenebre (2007). Il suo Dante non è un tipo corrucciato o con gli occhi fissi sul cielo, è un fiorentino simpatico, vagamente indisponente (un po’ come potrebbe esserlo miss Marple, ma forse con quella sana cattiveria giornalistica della Fallaci): ce lo può presentare?
«I libri su Dante nascono anzitutto proprio dalla grande simpatia che ho sempre provato per lui. Parlare così del padre della nostra lingua e forse del più grande poeta di tutti i tempi potrà sembrare irriverente, ma le mie intenzioni sono sempre state rispettosissime. Mi sono detto: ma se nel Trecento fosse avvenuto un delitto particolarmente efferato, per di più venato di oscure tracce diaboliche, chi meglio di lui sarebbe stato chiamato a risolverlo? Un uomo con una tale intuizione del comportamento umano e di tutti gli infiniti modi in cui si esplicita il male, al punto di averne fatto quello straordinario catalogo che è la Divina commedia, una vera e propria Summa criminalis dell’epoca. Ma non assolutamente un intellettuale da tavolino: combattente a Campaldino e poi durante gli sfortunati tentativi di tornare in armi dall’esilio, politico abile e trascinatore, innamorato delle donne per tutta la vita. Ma anche pieno di debiti, portato alla beffa e finanche alla pornografia, se è vero che vanno a lui attribuiti Il fiore e la tenzone con Forese Donati. Perché perdere tempo a inventare un personaggio di fantasia ricco di audacia, intelligenza, cultura, coraggio, genialità smodata, quando ce n’era uno già bello e pronto? In questo senso i miei romanzi sono pochissimo fantasy, non ho davvero inventato quasi nulla. Sono semmai operazioni congetturali, come direbbe Borges».
Perché leggere oggi Dante?
«Perché non facendolo si è più poveri. Si vive ugualmente, ma meno felici».
Ma lo sa che queste domande mi riportano alla mente la mia professoressa del liceo, grande appassionata ed esperta di Dante, che ci spiegava e leggeva le sue opere con una tale soavità e un tale amore che non ho più ritrovato se non nei “gialli” di Leoni? La tenga presente come spunto narrativo: una elegante e dignitosa appassionata di Dante che risolve un mistero legato al Sommo Poeta. Che gliene sembra?
«Ah, perché no? Dante stesso è lui per primo un uomo misterioso. A cominciare dalla sue vere idee politiche e religiose. Chi era veramente Beatrice? Chi erano quei “Fedeli d’amore” di cui dichiara pubblicamente di far parte? Dante era un eretico? Un templare? Era a favore o contro l’Impero? Che fine hanno fatto i suoi manoscritti e perché sono scomparsi? E, soprattutto, che cosa vuol dire davvero la Divina commedia? Come vede c’è materia per una miss Marple, un Poirot e anche uno Sherlock Holmes!».
Nel suo libro E trentuno con la morte (Mondadori), a parte la storia in sé, che non voglio rivelare per non toglierle ulteriori lettori (nel caso non ne avesse abbastanza!), viene fuori un panorama della Fiume dannunziana che appare quantomeno sconcertante. Ma lei quanti anni ha? Non può essere stato a Fiume con il D’Annunzio nazionale! Eppure ho notato che la confusione e l’entusiasmo rivoluzionario della Fiume da lei descritta sono gravidi di un’ansia reale, quell’ansia che deriva da un paese in cerca di rivincite, in cerca di risolvere percorsi storici interrotti. Com’è arrivato a questo libro, che percorsi ha seguito?
«Ma certo che ci sono stato! E ho visto tutta la storia, anche se solo con gli occhi della mente. Che poi sono il vero strumento dello scrittore, in ogni tempo. Naturalmente prima ho raccolto un po’ di documentazione, fotografie dell’epoca, mappe dei luoghi, testimonianze. Ma poi mi sono seduto in mezzo alle carte e piano piano ci sono andato ad abitare dentro, e per un po’ ci sono vissuto in compagnia dei miei personaggi. In fondo quello che volevo era vivere con loro un’avventura che mi ha sempre affascinato, sin dai tempi in cui la scoprii nelle pochissime righe che le dedicava il mio manuale di storia del liceo. E senza riuscire a spiegarmi la pochissima attenzione dedicata all’impresa. Gli americani sono riusciti a far conoscere a tutto il mondo un fatterello insignificante come la battaglia di Alamo. E noi, che avevamo a disposizione una storia così incredibile, niente, nemmeno uno straccio di fiction? Ma come, in pieno secolo XX Giovanni dalle Bande Nere realizza la prima Woodstock, con tanto di polverine e concerti (solo che lì era Toscanini a esibirsi) e noi nemmeno una parola? D’Annunzio inventa una formula politica che poi verrà esportata con successo in mezzo mondo, e noi sprechiamo il copyright così?».
Il suo ultimo libro si intitola La regola delle ombre (Mondadori). È un thriller che inizia con un doppio omicidio a Firenze nel 1482 e che vede sulla scena Lorenzo De Medici alla ricerca del misterioso libro di Ermete Trismegisto, cifrato da Leon Battista Alberti, che racchiude nelle sue pagine il segreto per richiamare in vita i morti. In una Firenze e una Roma dal sapore noir, lei offre al lettore un cinema mentale che ricorda la regia di Alex Infascelli con in aggiunta il velo del tempo, e presenta un giovanissimo Pico della Mirandola alle prese con una Città Eterna misteriosa e sublime, portacenere e scrigno di delizie, attraversata da correnti politiche e di palazzo in cui il giovane Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, intesse, briga e organizza nell’ombra. Una presenza femminile che ritorna dall’oltretomba aleggia sulla storia… Ci vuole parlare di questi personaggi e, soprattutto, di questa presenza femminile?
«La regola delle ombre è un romanzo più corale rispetto ai precedenti, anche perché va a esplorare un’epoca talmente articolata e ricca di contraddizioni che sarebbe stato impossibile ricondurre a un singolo personaggio. Ma, al di là della trama delittuosa, che, come sempre in quello che scrivo, è un puro pretesto, il suo vero tema è: qual è il lato oscuro di quell’epoca luminosa cui poi daremo il nome di Rinascimento? Quali dèi volevano celebrare veramente i maestri che hanno eretto le grandi cattedrali della cristianità? Perché un filone di pensiero segreto, che affonda nella notte dei tempi, torna ad affiorare proprio quando gli uomini sembrano più vicini a padroneggiare il loro destino e a comprendere meglio la natura delle cose che li circondano? Perché, se pensiamo a un genio, a chiunque viene in mente Leonardo, mentre in pochi ricordano Leon Battista Alberti, davvero uno degli uomini più straordinari che siano mai apparsi sulla terra? Quando entriamo nella Basilica di San Pietro, che cosa vediamo, veramente? E, quanto alla donna misteriosa, può mancare una donna misteriosa nella vita di ognuno di noi? Figuriamoci nei romanzi! In questo caso si tratta della bellissima Simonetta Vespucci, colei che fece innamorare tutta Firenze, compreso Botticelli, che continuò a ritrarla per tutta la vita e si fece seppellire accanto alla sua tomba. Esiste una tradizione che vuole come subito dopo la sua morte prematura venne tentato un rito tenebroso per riportarla in vita. Appunto, nel 1482 sembra che il suo spettro si aggiri per Firenze: è vero? E se è davvero lei, chi è stato e come ha fatto? E, soprattutto, perché?».
Caro Leoni, quanta suspense! È possibile che dietro la sua criniera si nasconda un perfetto serial killer? Non voglio risposte, preferisco continuare… La morte, lei ne parla spesso, è noto come faccia parte della vita, pur essendone la negazione: che atteggiamento ha lei verso la morte? E verso la vecchiaia?
«Pessimo, verso entrambe. Una dannata seccatura, con tante cose che ci sarebbero da fare e da scoprire. La cosa peggiore della morte non è tanto il non esserci più, quanto il fatto che, cessata la consapevolezza di essere, è come non esserci mai stati. E questa è davvero una fregatura contro cui nulla può, nemmeno l’ottimismo di Epicuro».
Cambiamo argomento! Immaginiamo un grande reality nel quale i protagonisti non siano tutti decerebrati e nullafacenti, prendiamoli dalla storia e mettiamoli per sei mesi a Cinecittà. Chi sceglie?
«Pericolosissima iniziativa, che sconsiglierei vivamente! Che io sappia, l’unica volta in cui è stato tentato qualcosa di simile, un conclave di sapienti, è stato con il progetto Manhattan, e ne è venuta fuori la bomba atomica. Il fatto è che gli uomini, quando vengono chiusi in un recinto, tendono a dare il peggio di sé, come allo stadio. Per cui è meglio continuare con i minus habentes, almeno non fanno danno a nessuno».
Fra trecento anni lei si reincarna in uno scrittore di nome Giulio e scrive thriller e gialli storici: chi vede bene come assassino e chi come vittima fra i personaggi di oggi?
«Fra trecento anni? Ma il mondo non doveva finire nel 2012? Comunque, se la cosa si verificasse, scriverei di un complotto per assassinare… aspetti un momento, ma lo sa che non è mica una cattiva idea? Mi scusi, ma provo a scriverla adesso, prima di dovermi reincarnare!».
Se la scrive, si ricordi di me quando riscuote i diritti… Ecco, posi la penna e si fermi un attimo, ancora poche domande… Un aspetto la differenzia da alcuni suoi colleghi, la sensazione che lei si diverta quando scrive e questo traspare anche leggendola, si sorride e sembra di leggere o vedere Pinocchio o le Winx a 12 anni! Scrivere è divertirsi! Che ne pensa?
«Sicuramente, e cercare di divertire, nel senso buono e direi etimologico della parola: portare su un’altra strada. Io ho solo l’ambizione, quando scrivo, di riuscire a comunicare al lettore almeno una frazione dell’immenso divertimento che ho sempre provato leggendo da quando, piccolissimo, scoprii in casa una vecchia edizione Nerbini illustrata delle Mille e una notte, nella versione di Galland, con tutti i suoi geni e califfi e cavalli alati. Sento da allora di aver contratto un debito che cerco ancora di ripagare. E cerco di farlo trascinando i lettori sul mio carrozzone del Paese dei Balocchi, per giri anche tortuosi, alla fine dei quali però ci si trova in un paese diverso. Un po’ come leggere all’età giusta l’Isola del Tesoro: si sale su quella nave, si fa un giro per oceani e terre sconosciute, poi si torna a terra. Ma chi lo ha fatto continuerà a cercare tesori per tutta la vita».
Per parlare di altri tesori: l’ultimo libro letto e… una curiosità: che musica ascolta?
«L’ultimo è stato un libro non recentissimo di Emanuele Severino, un filosofo che trovo affascinante: L’anello del ritorno (Adelphi), su un aspetto del pensiero di Nietzsche. Quanto alla musica, l’opera lirica. E non da musicologo raffinato, quello che stravede per le alchimie di Mozart o si commuove per il Moses und Aron di Arnold Schönberg. No, no: proprio il zum-pa-pa di Verdi!».
Lei è proprio uno scrittore di efferati delitti molto anomalo, sa?
«…».
Chi tace, si sa, acconsente. Grazie e buona scrittura!
Matteo Tuveri
(LM EXTRA n. 18, 15 dicembre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 48, dicembre 2009)