Carrara è sinonimo di marmo, soprattutto statuario. La “coltivazione” delle cave, cioè il loro sfruttamento, ha caratterizzato la storia di questa città trasformandola nel punto nodale dell’esperienza artistica (e commerciale) almeno dal Rinascimento ai giorni nostri. Ma fino a tutto il Medioevo fu Roma a tenere, in un certo senso, il “primato del marmo”, non per la presenza di cave ma per il fatto che, per secoli, la capitale dell’Impero aveva assorbito, e trasformato, notevolissime quantità di pietre e marmi.
L’impero romano: una cava a cielo aperto – L’uso del marmo, e della pietra in genere, nel mondo romano aveva una particolare importanza perché legato alla costruzione di innumerevoli edifici, sia pubblici (terme, fori, teatri, anfiteatri), sia privati (ville fuori città), i quali assimilavano enormi quantità di materiale litico. Nell’Impero romano le cave di pietra erano presenti un po’ ovunque, la maggior parte delle quali erano significative solo localmente, ma ve ne erano di quelle importanti e molto redditizie che fornivano materiale al commercio in tutto il territorio. La pietra veniva trasportata via mare o lungo i fiumi perché le navi costituivano la forma di spostamento più conveniente per un materiale così pesante. Il carico consisteva in blocchi non ancora sbozzati oppure in pietra semilavorata, come colonne o sarcofagi sommariamente abbozzati e destinati a essere rifiniti sul luogo di lavorazione. Ve ne erano grandi depositi a Ostia e soprattutto a Roma, sulla riva sinistra del Tevere, ai piedi dell’Aventino, nel quartiere che conserva il caratteristico nome di “Marmorata”. Lì si potevano scaricare e immagazzinare carichi pure molto grossi. Nella Roma imperiale esisteva un intero dicastero, la ratio marmorum, che sovrintendeva questa industria. Quasi tutte le cave più importanti erano statali. L’Egitto forniva granito e porfido. I marmi colorati erano molto ricercati non solo per decorare muri e pavimenti ma anche per l’arte statuaria e, a volte, raggiungevano prezzi esorbitanti. Il marmo giallo proveniva dall’antica Simitto, in Tunisia; quello verde da Larissa, nella Tessaglia; il nero, quasi tutto dai Pirenei. Ma il commercio più importante era quello del marmo bianco. Non tutte le cave davano però marmo adatto allo stesso tipo di lavorazione: certe varietà molto ricercate dagli architetti non erano idonee a essere scolpite. Le cave di Luni (Carrara) cominciarono a essere sfruttate solo verso la fine della Repubblica e il marmo estratto era usato unicamente nelle province occidentali dell’Impero. I marmi più famosi provenivano dalla Grecia e dall’Asia Minore, come quello, atto a essere scolpito, che veniva dal Pentelico, da Paro nelle Cicladi, da Taso e anche da Teo in Anatolia, sulla baia di Sigacik, la cui fama perdurò anche nel periodo bizantino.
Le spoliazioni nel Medioevo, a Roma e altrove – Il crollo quasi totale della produzione di pietre registrato con la caduta dell’Impero romano non si arrestò, né la produzione mostrò segni di ripresa fino all’XI secolo. Per tutto il Medioevo ebbe luogo una sistematica spoliazione dei marmi e delle pietre pregiate presenti nelle grandi città romane. Senza cinismo e con la massima semplicità si diceva che Roma era il luogo ubi specialiter marmoreorum lapidum copia reperitur. Presso i grandi monumenti imperiali vi erano le “calcare” che per secoli trasformarono il marmo più prezioso dell’Oriente in calce. Era sufficiente scavare tra le rovine del Colosseo o nei Fori Imperiali o nelle basiliche. Il marmo era a disposizione. Per la “Camera Capitolina” questo commercio era una fonte redditizia sicura; la tariffa era precisa: dodici denari per blocco. Partivano, utilizzando il Tevere, le colonne, i capitelli, i grossi blocchi che erano ricercati anche fuori d’Italia. Solo nel Quattrocento vi furono preoccupazioni relative ai cavatori abusivi: così Lorenzo Caffareli (“conservatore” delle risorse litiche romane) si sdegnò quando un nipote di Sisto IV, Gerolamo Riario, mandò gente al Colosseo per estrarne i travertini che gli facevano comodo (e i “conservatori” non esitarono a litigare anche col papa. Allo stesso modo fu incarcerato, per ordine sempre dei “conservatori”, quel nipote del cardinale Lorenzo Cybo, che fece rompere una statua dell’Arco di Costantino per averne la testa. Peggio doveva fare il famoso Lorenzino de’ Medici nel Cinquecento). Anche altre città appartenute all’Impero sfruttarono il capitale marmoreo avito: così avvenne a Rimini, Pola, Torino e in qualsiasi altra città che avesse monumenti d’una certa imponenza.
Il problema del trasporto – Intorno agli inizi del XII secolo, quando si creò una forte domanda sia per la costruzione di grandi edifici, sia per complessi monumentali e fortificazioni, quasi tutta la pietra veniva estratta per i mercati locali, poiché il costo del trasporto era tale che in alcuni casi faceva aumentare il prezzo in maniera esorbitante. Fra il XV e il XVI secolo acquistarono fama materiali litici alternativi al marmo che si impadronirono del mercato (pietra serena, pietra d’Istria, ardesie). Vi sono naturalmente circostanze locali che influiscono sulle decisioni: la facilità di estrazione e di trasporto spesso impone la scelta di un tipo di materiale o di un altro, considerando anche che la spedizione via terra è sempre stata faticosissima e costosissima. Donatello e Michelozzo, nel 1426, per affrontare la preparazione del monumento funerario del cardinale Brancacci, destinato a Napoli, affittarono una bottega a Pisa, alleviando enormemente le fatiche legate ai trasporti, da un lato per essere più vicini alle cave di Carrara, dall’altro per rendere più facile l’invio del monumento a Napoli. Le colonne tagliate a Chiampo nel 1444, per la Piazza dei Signori di Vicenza, sollevarono un problema di spostamenti che sembrò insormontabile: da Chiampo a Vicenza, 24 km, occorse un carro speciale tirato da quindici buoi e da duecento uomini e si riuscì, in un mese, a portarne una (nel 1447), ma la si innalzò solo nel 1464; l’altra sarà trasportata due secoli dopo, nel 1640. A Cremona, nel 1520, la vasca del Battistero intagliata a Sant’Ambrogio di Valpolicella, impiegò più di un mese per arrivare alla meta.
Lungo i corsi d’acqua – Il trasporto risultava più facile dove si poteva disporre di un corso d’acqua. I veneziani portarono dalle cave istriane di Parenzo e Orsera la famosa pietra d’Istria: erano marmi di color biancastro che il Sansovino diceva migliori del travertino. Così la pietra d’Istria arrivava nella Laguna, risaliva i fiumi e andava a Padova, a Treviso, a Verona; attraverso il Po giungeva nelle città appenniniche dove il costo basso la faceva preferire ai materiali litici del posto, di cui sarebbe stata più costosa l’estrazione. Questa pietra veniva sbarcata anche ad Ancona, da dove poteva raggiungere le città delle Marche. Per mezzo dell’Adige scendevano in pianura i marmi di Verona e si diffondevano sino nell’Emilia e nella Romagna. Milano, durante tutto il Rinascimento, utilizzò le cave di pietra di Angera e quelle di marmo di Condoglia. Fu calcolato che da quelle cave si estrassero per il Duomo mezzo milione di tavole rettangolari, oltre al marmo necessario per le tremila statue. I grossi blocchi scendevano per il Toce sul Lago Maggiore e poi, attraverso il Ticino e il Naviglio, arrivavano nel centro della città. Era una concessione gratuita del duca di Milano. Fino a tutto il Rinascimento la lavorazione del marmo di Carrara era ancora relativamente scarsa. Alla gabella di Massa erano registrati i blocchi di marmo grezzo che pagavano un soldo e sei denari ogni carrata.
I marmi locali – Marmi di Carrara venivano portati nel Quattrocento a Genova e si combinavano con la pietra di Finale o l’ardesia. Ma a Genova il marmo apuano comparve, in epoca medievale, già intorno al primo quarto del XII secolo nella basilica di Castello; nel 1191 un tal Durante di Carrara si impegnò a consegnare a Gugliemo, proprietario di un fondaco nel porto, una colonna marmorea. Nel 1214 fu ancora un carrarese, Ugo, a preoccuparsi per la sua merce (colonne e capitelli marmorei) immagazzinata a Genova, alla Ripa. Ma Genova, per tutto il XII secolo, usava anche pietre locali come il “Rosso di Levanto” e ancora il “marmo rosa di La Spezia”, utilizzati per la facciata della cattedrale di San Lorenzo. Altre cave erano presenti a Marassi, in San Martino d’Albaro e c’era poi quella del promontorio nel vallone di San Lazzaro (dietro il monastero di San Benigno di Capodifaro), senza dimenticare il marmo verde di Voltri. Firenze aveva delle cave di pietra serena e pietra forte addirittura all’interno della cinta delle mura (i Giardini di Boboli furono impiantati proprio in un luogo in cui precedentemente era situata una cava poi esauritasi) ed erano così ricche che fu possibile realizzare l’intero processo di produzione, dall’estrazione alla consegna del lavoro finito.
Il marmo nel Meridione – Nell’Italia settentrionale la maggior parte della cave era situata vicino a quelle città che avrebbero avuto un parte decisiva nello sviluppo dell’architettura del Rinascimento. E, anche in quella parte d’Italia dove il Rinascimento arrivò di riflesso, lo sfruttamento di alcune cave di marmo o di granito ha avuto un suo peso e una sua caratterizzazione (non solo economica) in ambito locale e non solo. Mi riferisco alle cave di marmo della Sicilia e della Calabria: quelle di Contorrana e di Piana degli Albanesi (nonché di Siracusa) in Sicilia e quelle di Gimigliano, Catanzaro, Prestarona, insieme al granito di Tropea, in Calabria. Si tratta di marmi e graniti che non hanno avuto un’importanza legata alla scultura (se non durante il Medioevo), quanto invece all’architettura locale. Essi sono stati utilizzati per produrre i conci usati per costruire gli archi d’ingresso dei portali e per realizzare colonne, capitelli e architravi. Nel Meridione, poi, il reimpiego dei materiali litici – per buona parte del Medioevo poté essere accomunata alle esigenze del resto d’Italia – continuò, in effetti, fino a tutto l’Ottocento per via dei frequenti terremoti che, soprattutto in Calabria, costringevano a un continuo recupero di sculture, colonne e capitelli, determinando quella “polverizzazione” sul territorio di opere d’arte provenienti da luoghi diversi rispetto alla collocazione attuale.
Edifici e statuaria nel Sud Italia – A causa della conseguente carenza di documentazione, perciò, diventa quasi impossibile, per lo studioso, risalire alla esatta provenienza del manufatto. Tra gli innumerevoli esempi, cito soltanto il riutilizzo delle colonne e dei capitelli antichi per la costruzione della Cattedrale di Gerace (XI secolo, ricostruita da Federico II nel 1222). La riutilizzazione di manufatti romani per le diverse fasi costruttive del complesso abbaziale della Santissima Trinità di Venosa (con il ritratto di un principe giulio-claudio utilizzato addirittura come concio da muro, scoperto nel 1973). Fino ad arrivare ad un ritratto d’epoca romana, iscritto in un tondo e incassato in una costruzione recente a Teggiano (Salerno). Ritornando alla statuaria rinascimentale, dobbiamo a Domenico e Antonello Gagini (per tacere di Francesco Laurana) e alla loro grande bottega l’enorme produzione di madonne per le varie chiese siciliane e calabresi. Antonello Gagini si faceva mandare da Carrara il marmo necessario per la sua produzione. Marmo che veniva scaricato nel porto di Messina ove, nei primi anni del XVI secolo, egli teneva bottega. E dopo di lui Montorsoli, Montanini, Giuseppe Bottone, Rinaldo Bonanno; quindi Filippo Juvarra e tanti altri.
L’immagine: predella dei Quattro santi coronati (1408, Firenze, Orsanmichele) di Giovanni di Antonio di Banco, detto Nanni di Banco (Firenze, 1380 circa – 1421),
Francesco Cento
(LucidaMente, anno II, n. 24, dicembre 2007)