«Voglio bene al silenzio»: intervista allo scrittore felsineo, che, con il suo ultimo romanzo “Il giallo di Caserme Rosse” (Fratelli Frilli Editori), getta uno spietato sguardo sul capoluogo emiliano, tra passato e presente
Massimo Fagnoni è uno scrittore bolognese che da oltre un decennio affida alla sua penna storie tratte anche dal proprio vissuto quotidiano, trovando la giusta alchimia tra una laurea in Filosofia e il suo lavoro prima presso i servizi sociali e poi come agente della Polizia municipale della città felsinea. In concomitanza con l’uscita del suo ultimo noir, Il giallo di Caserme Rosse. Bologna, un’indagine di Galeazzo Trebbi (Fratelli Frilli Editori, pp. 194, € 11,90), la terza avventura del “suo” investigatore, l’abbiamo intervistato.

«Nel 2005 circa ho pensato che mi sarebbe piaciuto provarci, su suggerimento di mia moglie che trovava interessante il mio modo di scrivere, ma con nessuna reale aspettativa in merito. Bologna all’inferno, uscito nel 2010, si può dire che fu un esperimento letterario, una prova delle mie reali potenzialità; e vende ancora».
Parlaci della tua ultima fatica letteraria.«Il giallo di Caserme Rosse è il terzo romanzo dedicato a Trebbi investigatore. Il personaggio sta crescendo, strutturandosi sempre meglio: ci sono nuovi protagonisti che si affiancano a lui e le storie assumono sempre più una connotazione metropolitana e sociale. Questo è il nero che preferisco, quello dove dentro inserisco diversi ingredienti sperando di realizzare un piatto appetitoso. Al suo interno, infatti, ci sono le contraddizioni della convivenza sociale attuale, i nuovi poveri, i flussi migratori, la caratterizzazione dei personaggi, un pizzico di azione che non guasta e il tarlo del dubbio che non deve mai abbandonare il lettore fino all’ultima pagina».

«Sì, infatti. Si racconta di un giovane scomparso nel 1943-44 in un campo di smistamento di Bologna [Caserme Rosse, appunto; vedi anche Il lager (dimenticato) delle Caserme Rosse di Bologna; Il medico calabrese che salvava i partigiani ingannando i nazisti; Il campo di concentramento sotto le Due Torri, ndr] e mai più ricomparso, né vivo né morto. Trebbi dovrà scoprire cosa gli è successo. La verità scompaginerà la realtà cittadina».
Da dove prendi spunto per le tue storie? La tua professione, quella attuale, ma anche quella precedente, quanto incide e quanto sta incidendo sui tuoi racconti?«Sicuramente il lavoro di strada come agente della Polizia municipale è stato utilissimo soprattutto per le atmosfere e le situazioni, ma lo spunto arriva da un mix di esperienze: il lavoro nel sociale, una palestra eccezionale per toccare con mano le situazioni umane più disparate, poi tanta narrativa letta, tanto cinema e fiction, e l’esperienza di persona non più giovane, che ha attraversato alcuni decenni di vita italiana sicuramente memorabili».
Venendo nello specifico, Galeazzo Trebbi con il tuo ultimo romanzo è alla sua terza indagine, ma questa volta si va indietro con la memoria… Quando è maturata in te questa storia?«Un paio di anni fa accompagnai mia moglie e sua figlia a Cracovia per un viaggio studio e andammo a visitare Auschwitz: l’impatto fu per me folgorante e da quelle emozioni decisi di dedicare un paio di pagine di un mio romanzo a quella esperienza e alla fine ci ho costruito un romanzo intorno».
Come prepari i tuoi personaggi, come li studi?«Trebbi nello specifico è il “mio investigatore”, ovvero come lo volevo io. Un bolognese, un cinquantenne, segnato dalla vita, disincantato, il più possibile realistico. Certamente è influenzato da tanti suoi predecessori, ma è difficile inventare qualcosa di davvero nuovo in quest’ambito. Tutti gli altri personaggi nascono dall’osservazione e dall’ascolto della varia umanità che ogni giorno incontro, incrocio».
Cosa fai nello specifico per andare a “caccia” di nuovi soggetti?«Le storie mi vengono incontro, le trovo nella cronaca sempre ricchissima di spunti, spesso nasce da un bisogno, da un’esigenza comunicativa. Io, ormai, prediligo questo modello comunicativo a quello diretto. La comunicazione che mi gratifica di più è quella che passa attraverso qualcosa che scrivo. Racconto e aspetto che qualcuno mi venga a cercare per discutere con me delle sue impressioni. È un gioco davvero gratificante».

«Io scrivo letteralmente in uno sgabuzzino, in origine destinato davvero a contenere scope e detersivi. Tuttavia, nello stanzino c’è una finestra affacciata su una corte interna. Ma ormai scrivo ovunque. Con il portatile mi sposto per la casa, anche se lo sgabuzzino rimane la mia navicella prediletta. Ascolto sempre musica, solitamente rilassante ed evocativa quando scrivo, di tutti i tipi quando rileggo, a un livello basso chiaramente, ma aiuta nel processo creativo, è fondamentale».
A quale dei tuoi romanzi resti più legato, salvo restando che buona l’ultima?«Il silenzio della bassa [vedi L’assassino? La tv spazzatura!, ndr], ha segnato un cambio di passo nel mio stile e nel mio raccontare e rimane il mio primo vero successo editoriale, il mio salto di qualità. Da allora in poi credo di potere affermare che i miei lettori sono aumentati e, quindi, voglio bene a quel silenzio».
Donatella Swift
(LucidaMente, anno XII, n. 133, gennaio 2017)