A 45 anni (17 maggio 1972) dall’assassinio del commissario Luigi Calabresi e a dieci dalla pubblicazione del libro “Spingendo la notte più in là” del figlio Mario, ripercorriamo le contraddizioni di quei tempi viste attraverso gli occhi di chi, per troppo tempo, è rimasto in silenzio
«Penso che voltare pagina si possa e si debba fare, ma la prima cosa da ricordare è che ogni pagina ha due facce e non ci si può preoccupare di leggerne una sola, quella dei terroristi e degli stragisti, bisogna preoccuparsi innanzitutto dell’altra: farsi carico delle vittime».
Scrisse così, ormai un decennio fa, l’attuale direttore de la Repubblica Mario Calabresi, nel libro Spingendo la notte più in là (Mondadori Libri, pp. 132, € 11,00). Lo fece con cognizione di causa perché lui stesso ha dovuto scontare la follia degli Anni di piombo. Il 17 maggio 1972, suo padre, il commissario Luigi Calabresi, venne ucciso, come tanti, «per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione», per usare le parole di Corrado Augias. Il nostro è un Paese che ancora oggi pone i terroristi sotto i riflettori dei giornali e delle televisioni e che spesso fatica a dare loro un ritratto da assassini più che da “romantici perdenti”, mentre l’altra voce, quella delle vittime, passa sommessamente, quasi a non voler disturbare. È a questo vuoto che Spingendo la notte più in là ha cercato di rimediare. Luigi Calabresi venne dunque assassinato 45 anni fa, ma, per ricostruire la sua vicenda, occorre fare un ulteriore passo all’indietro.
12 dicembre 1969, strage di piazza Fontana, 16 morti. La Questura di Milano convocò ottantaquattro sospetti, fra i quali il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. In violazione dei limiti allora previsti dalla legge, Pinelli venne trattenuto per tre giorni consecutivi, fino al 15 dicembre, quando morì cadendo dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dove stava avvenendo l’interrogatorio. L’episodio suscitò da subito forti polemiche e venne aperta un’inchiesta, affidata al magistrato Gerardo D’Ambrosio, per accertare le responsabilità delle forze dell’ordine. La sentenza definitiva arrivò nell’ottobre del 1975 ed escluse sia l’ipotesi di suicidio sia quella di omicidio. La morte venne definita accidentale e dovuta a un malore per lo stress degli interrogatori, le troppe sigarette fumate a stomaco vuoto e il freddo che proveniva dalla finestra aperta. Una «improvvisa alterazione del centro di equilibrio» avrebbe così causato la caduta.
Pinelli sarà considerato la diciassettesima vittima di Piazza Fontana, ma la sua morte non sarà che il preludio alla diciottesima. Nonostante cinque funzionari delle forze dell’ordine avessero confermato l’assenza di Calabresi al momento della caduta (tesi confermata anche da D’Ambrosio, che nel 1975 scrisse: «L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli»), il commissario divenne il bersaglio di una incessante campagna accusatoria che lo additò come il responsabile dell’accaduto. Soprattutto il movimento extraparlamentare Lotta Continua si contraddistinse per la violenza dei toni usati e, dalle fila del proprio giornale, macabramente predisse la fine del commissario: «È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara».
«Un linciaggio feroce, anche se al rallentatore. Una follia che contagia migliaia di persone» scrisse Giampaolo Pansa su la Repubblica. Un eccesso così potente da arrivare a toccare non soltanto giovani e influenzabili “rivoluzionari”, ma anche l’élite culturale del Paese. Il 13 giugno 1971, sul settimanale L’Espresso, venne pubblicata una lettera aperta per denunciare, con toni violenti e accusatori, sia Calabresi come responsabile dell’omicidio, sia una serie di persone che avrebbero condizionato il processo in favore del commissario. La lettera riportava in calce 757 firme, fra le quali quelle di alcuni fra i maggiori giornalisti e intellettuali del tempo, come Umberto Eco, Federico Fellini, Dario Fo, Margherita Hack, Pier Paolo Pasolini ed Eugenio Scalfari. Nel 2002 l’ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, anch’egli fra i firmatari, scrisse come «qualsiasi parola di scuse nei confronti di moglie e figli di Luigi Calabresi mi appare ancora oggi inadeguata alla gravità dell’episodio», mentre lo stesso Pansa, il quale invece si rifiutò di sottoscriverla, affermò in seguito che la lettera diede «un avvallo al successivo assassinio di Calabresi».
Alle 9,15 della mattina del 17 maggio 1972, mentre stava raggiungendo la macchina per andare al lavoro, il commissario Calabresi venne assassinato con due colpi di pistola, a poco distanza dalla propria abitazione. Il giorno seguente, Lotta Continua titolò Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli, mentre l’amico di famiglia e imprenditore milanese Antonio Lanfranchi fece scrivere sul Corriere della sera uno dei pochi necrologi non ufficiali o della famiglia: «Antonio Lanfranchi piange l’amico Luigi Calabresi». Il fatto suscitò così tanto stupore che l’allora capocronista del Corriere, Arnaldo Giuliani, lo andò a intervistare. Luigi Calabresi, padre di due bambini e con un terzo in arrivo, vittima di un pubblico linciaggio e di un ignobile attentato, ebbe soltanto quattro necrologi spontanei. In quei momenti di paura e di follia, venne dimenticato da molti, comprese le istituzioni.
Il processo seguito alla sua morte ebbe una svolta solo nel 1988, quando Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, confessò di aver partecipato all’agguato contro Calabresi in qualità di autista. Marino inoltre accusò i due fondatori di Lotta Continua, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, di essere stati i mandanti dell’omicidio, e Ovidio Bompressi di esserne stato l’esecutore materiale. Nonostante la confessione presentasse alcune incongruenze, Marino fu ritenuto attendibile e, nel 1997, fra le tante voci di indignazione provenienti dal prevalentemente innocentista mondo culturale, la Cassazione condannò Bompressi, Sofri e Pietrostefani a ventidue anni di reclusione, Marino, in qualità di collaboratore di giustizia, a una pena ridotta di undici anni (che non scontò mai in quanto il reato era caduto in prescrizione). Dopo tre anni di reclusione, Pietrostefani, approfittando di un periodo di scarcerazione temporanea, scappò in Francia, dove è tuttora latitante. Nel 2006, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano concesse la grazia per motivi di salute a Bompressi, mentre Sofri, che in un’intervista al Corriere della Sera si assunse la responsabilità morale, ma non materiale, dell’omicidio, è stato scarcerato nel 2012.
Mario Calabresi, con la propria pubblicazione Spingendo la notte più in là, partendo dalla propria vicenda autobiografica, arriva ad abbracciare le storie di tanti che hanno dovuto scontare sulla loro pelle le contraddizioni di quegli anni. Tanti ai quali, mentre vedevano gli assassini dei propri cari uscire dalle carceri e dimenticare il passato, è stato riservato il vero ergastolo, la sofferenza di una pena senza fine. In poche pagine possiamo così ripercorrere gli Anni di piombo, partendo dalla strage di piazza Fontana fino agli ultimi strascichi delle Nuove brigate rosse con l’uccisione di Marco Biagi, passando per i fatti della Colonna Walter Alasia, il rapimento di Aldo Moro, l’assassinio di Walter Tobagi e molti altri ancora. Tutte vicende sulle quali si è scritto tanto, ma che nel libro di Calabresi figlio vengono raccontate dal punto di vista dei parenti delle vittime e della loro silenziosa sofferenza.
L’eredità di questo libro non è un messaggio di odio e vendetta, ma uno sguardo al percorso di un uomo che è stato in grado di scavare in un passato dolorosissimo, anzi straziante, e voltare pagina, seppur nel rispetto della memoria: «Dovevo portarlo con me nel mondo, non umiliarlo nelle polemiche e nella rabbia, così non lo avrei tradito. Bisognava scommettere tutto sull’amore per la vita. Non ho più cambiato idea». È questo il senso del cammino intrapreso, con difficoltà, da Calabresi. Solo così è possibile spingere la notte più in là.
Mercoledì 17 maggio, alle ore 21,00, a Roma, presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli, si terrà un concerto di commemorazione organizzato dalla Sacra Fraternitas Aurigarum nella persona di don Ennio Innocenti, padre spirituale del commissario Calabresi.
Le immagini: il giornalista Mario Calabresi e il padre Luigi; una foto simbolo degli Anni di piombo e la copertina del libro Spingendo la notte più in là.
Gabriele Bonfiglioli
(LucidaMente, anno XII, n. 137, maggio 2017)