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«Ceci sotto le ginocchia, colpi di bacchetta, schiaffi e tirate di orecchie…»

Vecchi mestieri, ritualità, costumi, solidarietà comunitaria e… metodi educativi, vengono liricamente rievocati ne “Le lucciole e le stelle. I ricordi tornano” (Edizioni Efesto) di Angelo Avignone

Rino Tripodi by Rino Tripodi
1 Febbraio 2021
in CITAZIONI, RECENSIONI
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Una Calabria dal sapore proustiano nel nuovo libro di Angelo Avignone
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Vecchi mestieri, ritualità, costumi, solidarietà comunitaria e… metodi educativi, vengono liricamente rievocati ne “Le lucciole e le stelle. I ricordi tornano” (Edizioni Efesto) di Angelo Avignone

Recensendo su LucidaMente dello scorso novembre Le lucciole e le stelle. I ricordi tornano (Edizioni Efesto, Roma 2020, pp. 190, € 13,00) di Angelo Avignone, Rocco Polistena si era soffermato soprattutto sui meccanismi quasi proustiani della memoria adottati dall’autore e sulla narrazione delle donne e degli uomini rievocati nel libro.

Per non ripetere tali contenuti, noi invece ci soffermeremo sulle usanze e sui costumi del microcosmo di Lubrichi, unica frazione del piccolo Comune di Santa Cristina d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, così come vengono liricamente ed elegiacamente riportati alla luce da Avignone. Molto interessante è il ricordo dei mestieri spariti: quello del fabbro e maniscalco, «che produceva arnesi per il lavoro dei campi e curava la ferratura di asini e muli»; quello del carrettiere, che col suo «traìnu, un carretto a due grandi ruote, portava un po’ di tutto», dalle olive alle botti, fino alle stesse persone; quelli del ciabattino, del sarto, del banditore pubblico (!), dell’arrotino, dell’ombrellaio, del canestraio. E le relative botteghe, luoghi di incontro e di conversazione. Un intero capitoletto de Le lucciole e le stelle («Segnali di solidarietà e reciproco soccorso») è dedicato al racconto di quei tipici atti di aiuto vicendevole caratteristici della povera gente, ad esempio in occasione di alluvioni, incendi, ma, ancora più assiduamente nei piccoli gesti quotidiani di assistenza, come fare le iniezioni o dividere quanto si cucinava di speciale, si raccoglieva nei propri orti o gli stessi funghi raccolti negli impervi boschi dell’Aspromonte.

Fondamentali erano «le forme dell’identità religiosa», costituite non solo dalle messe e dai riti, ma da feste di piazza, auguri, gesti, visite alle persone: «Gli auguri erano fatti casa per casa. Auguri dati a tutti, nessuno escluso, con le mani protese desiderose di abbracciare […]. Oggi tutto questo non c’è più. Manca il senso di appartenenza, di comunità, è sparito il rito del dono. Il benessere ha anestetizzato i profondi sentimenti dell’animo». Anche il Natale, ridotto a festa pagana, è dominato da «cultura tecnologica, disgregazione della comunità. Shopping esasperato, frenesia all’acquisto di regali dispendiosi e spesso inutili». Come afferma l’Oscar Wilde citato dallo stesso Avignone, «al giorno d’oggi la gente sa il prezzo di tutto e non conosce il valore di niente». La Prima Comunione e la Cresima costituivano dei veri e propri riti di iniziazione, passaggi del ragazzino verso l’età adulta, momenti attesi con ansia, gioia e felicità da genitori e figli.

La scuola non era certo quella permissiva e fonte di disastri pedagogici e psicologici come quella odierna, che, invece di proporre modelli etici, insegue mode e costumi giovanili e imposti dall’ideologia consumista e globalista: «I metodi educativi erano particolarmente severi e le pratiche di correzione dolorose! […]: ceci sotto le ginocchia, colpi di bacchetta, schiaffi e tirate di orecchie che facevano tanto male […]. Lamentarsi non era possibile perché la famiglia condivideva questi metodi educativi, anzi, spesso era la stessa famiglia a incoraggiarli […]. La punizione, tutto sommato, meno dolorosa, era quella di ricopiare svariate volte, sul quaderno, l’errore commesso o una frase a contenuto morale». Con tali sistemi, oggi da denuncia penale, tutti gli allievi, oltre alle nozioni e alla cultura, imparavano «il senso della solidarietà, del dovere, del rispetto di quelle regole necessarie per una corretta convivenza civile». Era impensabile che si acquistassero giocattoli: sarebbe stato uno spreco assurdo per le misere finanze famigliari. Piuttosto, dalle trottole alle spade di legno, erano costruiti dagli stessi bambini, e i giochi erano inventivi e stimolavano il movimento fisico, l’abilità, la destrezza: «Allora la noia era vinta con poco: il gioco “fai da te” riempiva le ore non dedicate agli impegni e allo studio e ci avvicinava alla società degli adulti. I giochi oggi sono di fattura industriale e così la creatività viene ingabbiata, la fantasia sopita, l’avventura scoraggiata, l’intraprendenza spenta».

Nello scritto dell’autore è sicuramente presente un tono nostalgico, collegato ai suoi ricordi personali e ai relativi affetti. Tuttavia, il lascito più importante de Le lucciole e le stelle è il recupero di un’umanità e di una civiltà che, per contrasto, evidenzia l’orrore del nostro mondo contemporaneo, pervaso di tecnoscienza, quindi ormai quasi privo di calore, solidarietà, amore. E di quella lentezza che permette di cogliere la vita, la natura e i segni del sacro. Infine, segnaliamo appunto che il bel libro di Avignone contiene al proprio interno a mo’ di supporto visivo la riproduzione di fotografie di immagini di persone, luoghi, panorami, momenti della vita di Lubrichi. E il fatto che, a causa dell’imperfezione tecnica originaria o del tempo trascorso qualcuna appaia un po’ sfuocata, non fa che aggiungere suggestione a suggestione: frammenti di luce del passato, sottofondi ancestrali, minuscoli ma resistenti fili, vibrazioni e palpiti di una vita certo più povera e meno tecnologica ma forse più umana e certamente più dignitosa.

Rino Tripodi

(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 182, febbraio 2021)

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Tags: angelo avignoneCalabriaLe lucciole e le stellelibroLubrichilucidamentememoriaRicordiSanta Cristina d’Aspromonte
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