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Parola alle catene, catene alle parole

Dalla redazione by Dalla redazione
19 Aprile 2010
in ATTACCO FRONTALE
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La parola è controllo. Il linguaggio ne è il mortifero araldo. L’espressione, il suo freddo sicario. Se diciamo che la parola ferisce peggio che la spada, abbiamo ragione. Ma commettiamo un’imperdonabile leggerezza: la parola non uccide. Essa ti tiene in vita quanto basta per poterti osservare, per poterti controllare nel tuo docile esistere. Il suo straordinario potere risiede nello sguardo malizioso, quello di chi si camuffa amichevolmente, promette di donarti la possibilità di essere libero, semplicemente permettendoti di comunicare, e nel frattempo ti controlla, da dietro, sempre pronto a correggere le tue devianze sintattiche, i tuoi errori sgrammaticati. Sempre pronto ad arrestare il tuo animo, che fugge, per restituirlo alla forma, che schiaccia.

Il luogo comune, nemico di chi non s’accontenta di ciò che esso pubblicizza, cerca di dare per buona la sensazione secondo la quale (ma è solo una sensazione di mal riposta fiducia) la parola riflette la libertà umana. Che anzi essa sia la manifestazione più cristallina di questa presunta (e presuntuosa) libertà. Come si sa, il luogo comune è talentuoso nel mercanteggiare vetri per topazi. Per tanto tempo la riflessione filosofica si è accontentata di liberare l’uomo attraverso la liberazione della parola, non ottenendo – la storia ci insegna – alcuna soddisfazione e tanta autoreferenziale stima per il proprio operato.

E fu così che la filosofia sviluppò un linguaggio astruso, finalizzato alle proprie masturbazioni: una parola propria che designa un campo espressivo autonomo, distaccato irrimediabilmente da quello sociale, alienato, unico, eterogeneo. La disciplina umana per eccellenza, a causa di ciò, perse definitivamente la propria possibilità di liberare effettivamente gli esseri umani, “istituzionalizzandosi” come pretendente alla scienza e perdendo la propria vivificante carica rivoluzionaria, che non parla se non attraverso le urla dal buio di un incompreso, di un inattuale. Ma, allora, che cos’è la parola?

Come detto, la parola è controllo. L’espressione linguistica è il più potente guardiano del potere vigente, il garante più raffinato e infido del dominio presente su tutti noi. Questo significa che non solo la parola non è condizione della libertà umana, ma che anzi essa è tutto il contrario di questa possibilità; in definitiva, ne è la morte. Essa si scontra con il flusso incondizionato e informale dell’animo umano (che non si esprime, se non esplodendo di continuo), formalizzandolo, normalizzandolo e restituendo “decenza” alle manifestazioni della follia insita nella comunicazione spontanea. La parola ingabbia la bestia, la incravatta e la espone allo sguardo del sistema: docile, elegante ed amabilmente parlante.

Tutto è visto, e ciò che è visto è anche previsto: panopticon, come disse un giorno Michel Foucault. È grazie a quell’evento storico particolare e contingente che viene chiamato “scolarizzazione” (non da condannare, per carità) che il linguaggio verbale viene istituzionalizzato e trasformato, da lingua espressiva o al massimo letteraria, in strumento di sostegno per gli apparati di controllo. Quel che nella sessualità venne compiuto nel secolo XVIII dalla consuetudine della confessione (rimandiamo alla lettura de La storia della sessualità. La volontà di sapere di Foucault, Feltrinelli, 1976), allo stesso modo venne fatto tra l’Ottocento e il Novecento dalla scolarizzazione nei confronti della scrittura e del linguaggio (rendendo “fuorilegge”, come più avanti si vedrà, la figura dell’analfabeta).

L’opera più rivoluzionaria è quella non scritta, quella mai espressa, quella incomprensibile. Essa è il genetico bisogno di scardinare le convenzioni della lingua. Essa è tutti gli scritti di Leonardo Da Vinci, espressi attraverso un codice che non appartiene alla forma tradizionale della comunicazione. Essa è la pittura di Schiele, nella mancanza dei codici abituali della raffigurazione artistica. Essa è la filosofia di Jean Genet, derivante non da un ragionato incastro di speculazioni, ma dalla tossicodipendenza e dalla genialità più irrefrenabile e autodistruttiva. Essa è la letteratura di Artaud, fatta di giochi linguistici senza “senso”, ma non nel “senso” in cui tradizionalmente intendiamo appunto il senso.

Attraversando questi pericolosi binari si arriva a un punto in cui ci si chiede infine: “che scrivere?” Inevitabile, per chi si pone queste riflessioni, il punto di sbocco aperto dalla questione. Questione in cui non v’è soluzione: la scrittura è controllo, questo è quanto. Nel momento in cui un individuo si pone a stendere un testo, divulgativo, commerciale, erotico che sia, egli si troverà prigioniero di codici che schiacciano il pensiero, regolamentazioni che rimandano infinitamente (a ogni singola parola) a sistemi sociali repressivi e onnipresenti. Il logos (scritto) – disse Eraclito – tradisce il logos (pensato). Non importa il “che cosa”, nello scrivere; l’importanza risiede nel “che comporta” scrivere. Scrivere ingloba colui che scrive nella sfera di controllo più rigida pensabile, qualsiasi cosa egli scriva.

Le figure che sfuggono a questo controllo sono i “fuorilegge”: schizofrenici, che smontano il linguaggio alla radice, destrutturano pragmaticamente i ruoli fondamentali del significante e dei significati, sragionano le colonne portanti del sillogismo e dell’apparato logico; gli analfabeti, che dopo l’avvento della scolarizzazione, sono banditi per la loro tendenza alla gestualità, al fuorviare le significanze dal di fuori delle regole sintattiche ed espressive, a loro sconosciute; le minoranze, che utilizzano efficacemente codici differenti da quelli riconosciuti come “abili”; i paranoici, che distruggono l’identità (tutta moderna) tra l’oggetto e il designato linguisticamente, cioè tra la “cosa” e la “parola”. Tutti costoro, fuorilegge della parola, sono gli “emarginati”, pericolosi per la sussistenza dell’apparato repressivo rappresentato dal linguaggio.

Mentre scriviamo (questa è la presa di coscienza di chi in questo compito ingrato si cimenta) siamo prigionieri di un codice espressivo che, se violato, non sarà “abilitato” alla divulgazione. Nella citazione di cui sopra, ad esempio, siamo costretti a servirci di un codice tutto particolare, di stampo commerciale e giuridico, senza il quale la contestazione del presente scritto lo porterebbe all’inevitabile macerazione, alla sua ostracizzazione insindacabile. E mentre si parla, del presente scritto, così come di ogni parola scritta che si possa leggere, ecco che le regole della lingua c’impongono di buon grado un controllo raffinato, psicologico e senza sbavature, tanto da non farci sospettare niente di niente, tanto da farci amare le nostre prigioni, onnipresenti; tanto da farci desiderare ancora queste parole, insaziabilmente, in questo panopticon che, di giorno in giorno, silenzioso, ci fa credere di essere, erroneamente, un po’ più liberi; che in realtà, di sillaba in sillaba, ci rende più complici, più senzienti nei confronti dell’apparato che, ineffabile, ci incatena a legacci invisibili, eppur sempre più resistenti.

La liberazione vera sta nelle urla della follia, o nel silenzio del nulla: «L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene» (Jean-Jacques Rousseau).

L’immagine: particolare di Surreale 06, fotografia di Giovanni Guadagnoli (www.giovanniguadagnoli.it).

Riccardo Dal Ferro

(LM MAGAZINE n. 11, 15 luglio 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 55, luglio 2010)

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Tags: analfabetacateneconvenzionifoucaultfuorileggelinguaggionovecentooperaottocentoparolascardinarescrittura
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