In un periodo di grandi divisioni all’interno della nazione francese, il grande scrittore fu tra coloro che assunsero una posizione nettamente innocentista nel dibattito sul caso dell’ufficiale ebreo accusato di tradimento
Nel febbraio 1898, un anno dopo lo scoppio dell’“affaire Dreyfus”, Marcel Proust, allora ventisettenne, assiste come uditore al processo contro Émile Zola, accusato di diffamazione dopo la pubblicazione del suo J’accuse…! Già sostenitore dell’innocenza dell’ufficiale ebreo, nel tomo II della sua Correspondance egli si schiera contro la stampa cattolica e reazionaria ostile allo scrittore, ribadendo la sua simpatia per il tenente colonnello Georges Picquart e l’avvocato Fernand Labori.
Per la prima e unica volta nella sua vita Proust assume una posizione netta, senza alcun calcolo, né precauzione, su quella che considera una battaglia a favore della Giustizia e della Verità. Segue con attenzione l’affaire, lo commenta nelle lettere indirizzate a sua madre, esprime preoccupazione per l’opinione colpevolista dei suoi domestici e tuona contro lo scrittore e politico francese Maurice Barrès, accusandolo di aver approfittato della vicenda per accrescere la propria notorietà. E se la conciliazione tra i due non tarderà comunque ad arrivare, in una missiva si vanterà di non avergli «risparmiato delle dure verità politiche e morali» (Giuseppe Scaraffia, Marcel Proust, Edizioni Studio Tesi, 1992). Malgrado l’esito del verdetto di Rennes, che definirà «vergognoso» (honteux), non teme, poi, di compromettere la propria reputazione schierandosi a fianco dei politici Georges Clemenceau e Jean Léon Jaurès. Tra i pochi a essersi mostrati scettici nei confronti della vicenda, era stato proprio il primo a scegliere il titolo dell’articolo di Zola facendo affiggere, nella notte del 13 gennaio 1898, migliaia di manifesti in tutta Parigi per annunciarne l’uscita.
Che il complotto dovesse diventare oggetto di narrazione era scontato. Un’eco è già rinvenibile nel romanzo incompiuto Jean Santeuil, una sorta di bozza del capolavoro di Proust À la recherche du temps perdu, pubblicato postumo nel 1952, il cui fortunato ritrovamento all’interno di un baule si deve allo studioso Bernard de Fallois. Quando l’autore è impegnato nella sua stesura, il processo è in pieno svolgimento: ogni mattina vi assiste, portandosi dietro solo un sandwich e una borraccia di caffè. Da qui la necessità di cambiare i nomi dei personaggi coinvolti, incluso quello di Dreyfus, che diventerà Daltozzi. Se si escludono i due romanzi di Anatole France, L’anneau d’améthyste (1899) e Monsieur Bergeret à Paris (1900), e quello di Roger Martin du Gard, Jean Barois (1913), in cui il celebre caso giudiziario è al centro della trama, l’opera proustiana ha dunque il merito di essere tra le poche ad averne parlato in modo dettagliato e oggettivo.
Nella “Recherche” la vicenda viene rievocata a distanza di anni attraverso i discorsi dei suoi personaggi, trasformandosi in una sorta di barometro della società del tempo. Tra le sue pagine, infatti, il precedente tono da reportage cede il passo alla constatazione delle conseguenze che il caso aveva avuto sulla società francese, colpendo anche le famiglie aristocratiche che si erano imparentate con membri della comunità ebraica. Il terzo volume, Le côté de Guermantes, pubblicato in due tomi presso l’editore Gallimard nel 1920, è quello in cui i riferimenti vi appaiono più numerosi: «Saint-Loup, l’amico del narratore, è dreyfusardo […]. Nel salotto dei Guermantes, “si evitava di parlare di Dreyfus per timore di offendere Saint-Loup”, Zézette, ovvero Rachel, piange pensando a Dreyfus che si trova sull’Isola del diavolo. Bloch è dalla parte di Dreyfus perché anche lui è ebreo. “È indubbio che il caleidoscopio sociale era sul punto di mutare e che l’affaire Dreyfus avrebbe fatto piombare gli ebrei all’ultimo posto della scala sociale”» (Gérard Desanges, Marcel Proust au café-concert, L’Harmattan, 2019). A questa lista di nomi cari ai frequentatori del capolavoro proustiano occorre aggiungere anche quello di madame de Villeparisis, amica d’infanzia della nonna del narratore, che si rifiuta di parlare con Bloch poiché lo considera una spia pronta a tradire la Francia.
Neanche i salons, che insieme alla stampa avevano contribuito alla diffusione dell’affaire, saranno risparmiati. Vi nacquero al loro interno delle vere e proprie fazioni, che ne mutarono il volto da luoghi di scambio e di condivisione di idee in lobby politiche. Tutto quanto aveva contraddistinto gli interessi e la diversità dei punti di vista dei suoi frequentatori all’improvviso svanì. Luoghi per eccellenza di “coabitazione” divennero l’argomento di una feroce caricatura che «contrapponeva i salotti di sinistra a quelli di destra, così come i “cabarets” rossi venivano contrapposti ai “cabarets” bianchi» (Madeleine Rebérioux). La descrizione proustiana della scomparsa di quello aristocratico dei Guermantes può rimandare a giusto titolo a tale cambiamento epocale, che vide soccombere i salons dinanzi ai nuovi luoghi di ritrovo, come i caffè, gli hôtels e i clubs.
E non sarà un caso se all’interno dell’opera sopravvivrà solo quello borghese di madame Verdurin, che Proust ci consegna in modo sarcastico: «Seduta su un seggiolone svedese di abete lucidato, che le era stato regalato da un violinista e che lei conservava […] perché ci teneva a lasciare in evidenza i regali che i fedeli usavano farle di tanto in tanto, in modo che i donatori avessero il piacere di riconoscerli ogni volta che venivano. Per questa ragione cercava di convincere a orientarsi sui fiori e sulle caramelle, che perlomeno si distruggono» (Du côté de chez Swann). L’affaire continuerà a essere menzionato anche negli altri volumi della Recherche: in Sodome et Gomorrhe (1922), in particolare, e ne Le temps retrouvé (1927). Nella prima opera Swann, il protagonista, ammesso a far parte della ristretta cerchia degli aristocratici, vive una straordinaria ascesa sociale. E, tuttavia, delude il duca di Guermantes, il quale afferma: «Avevo avuto la debolezza di credere che un ebreo potesse essere francese, intendo un ebreo rispettabile […]. Ora Swann era tutto questo. Ebbene, mi costringe ad ammettere che mi ero sbagliato, perché si schiera dalla parte di quel Dreyfus…». Nella seconda opera, invece, la distanza temporale dall’accaduto è tale che il narratore può parlarne come di un avvenimento consegnato, finalmente, alle pagine della storia. La stessa distinzione tra dreyfusardi e antidreyfusardi si mostra, oramai, priva di significato.
Il 19 giugno 1901, cinque anni prima dell’assoluzione di Dreyfus, Proust scrive l’epilogo della vicenda, organizzando una cena, divenuta celebre, in cui fa sedere allo stesso tavolo aristocratici e borghesi, amici e scrittori, appartenenti alle due opposte fazioni. Léon Daudet, fervente nazionalista e antisemita, che in quella occasione era seduto accanto a una giovane donna di origini ebraiche, ereditiera dei Rothschild, in seguito, avrebbe commentato: «Credo che nessun altro a Parigi sarebbe stato in grado di realizzare un simile tour de force» (Souvenirs littéraires). Tale dîner può essere considerato come il primo passo verso la riconciliazione che si realizzerà solo con l’Union sacrée durante la Grande Guerra.
Ma non per questo fu meno significativo, perché rappresentava il bisogno di andare oltre e di considerare l’affaire definitivamente concluso. È in questo essere specchio del suo tempo che risiede la grandezza dell’autore e della sua opera monumentale, la cui storia iniziale, fatta di una lunga serie di rifiuti per via della sua mole che ne rendeva problematica la pubblicazione, sembrava tutt’altro che promettente. In essa rivive la temperie storica, artistica e culturale degli anni che vanno dal 1871 al 1922: dalla sconfitta di Sedan all’episodio della Comune, dalla rivoluzione pittorica degli impressionisti, alla rivoluzione urbanistica di Georges Eugène Haussmann, dall’inaugurazione, nel 1900, della prima linea della metropolitana, sino a quello che abbiamo visto essere uno dei più importanti scandali di stato. «La qualità di Proust è l’unione dell’estrema sensibilità con l’estrema tenacia» scriveva Virginia Woolf, rendendo omaggio alle qualità incomparabili della sua arte. E chiosava: «È resistente come il filo per suture ed evanescente come la polvere d’oro di una farfalla».
Marilena Genovese
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 190, ottobre 2021)