Il lessico e i termini adoperati, oltre alla funzione di descrivere la realtà, hanno anche il potere di cambiarla
Il dibattito sull’articolo determinativo da anteporre a “presidente” ha rischiato di innescare il seguente meccanismo: “Invece di pensare alle sciocchezze, pensiamo alle cose serie”. Non a caso, al riguardo Giorgia Meloni ha scritto su Instagram: «Fate pure. Io mi sto occupando di bollette, tasse, lavoro, certezza della pena, manovra di bilancio. Per come la vedo io, potete chiamarmi come credete, anche Giorgia».
Il benaltrismo come scappatoia
Dando per acclarato l’assunto secondo il quale le competenze non sono determinate dalle etichette, e che essere donne non è garanzia di competenza, né del suo contrario, resta il fatto che relativizzare le questioni, foraggiando il fenomeno del benaltrismo, è da un lato un modo furbo per eludere il problema e dall’altro il viatico migliore per strappare applausi compiaciuti.
Come quando la stessa Meloni dice che la libertà delle donne non è farsi chiamare “capatrena”, utilizzando un’espressione chiaramente scorretta nella lingua italiana (quella corretta sarebbe, nel caso, la capotreno) e che naturalmente ammanta di ridicolo il dibattito.
È evidente che esistono sempre questioni più serie di cui occuparsi, tuttavia, di fronte alla nomina della prima donna presidente del Consiglio in Italia, dopo ben trenta presidenti del Consiglio uomini, viene da chiedersi: se non ora, quando?
La storiella e il ponte
Qualche anno fa era molto diffusa una sorta di storia/indovinello che pressappoco raccontava questo: un padre e un figlio viaggiano a bordo della stessa auto. A un certo punto l’auto va fuori strada, il figlio sembra da subito grave. Vengono portati in ospedale, dove i medici stabiliscono che il ragazzo debba essere operato d’urgenza. Appena, però, il chirurgo vede il ragazzo, si rifiuta di operarlo, spiegando che si tratta di suo figlio. Come mai? Poche persone riuscivano a rispondere velocemente che il chirurgo è la madre del giovane. Sembra quasi superfluo sottolineare, e invece a quanto pare occorre, che le parole determinano il pensiero e la nostra percezione della realtà.
A questo proposito, tempo fa è stato condotto uno studio in alcuni Paesi europei, nel quale si chiedeva a un campione di persone di associare al termine “ponte” degli aggettivi. I risultati sono stati interessanti: in paesi come l’Italia e la Francia, dove “ponte” è un sostantivo maschile, le persone hanno usato gli aggettivi “forte”, “solido” e “robusto”. In altri paesi europei, dove “ponte” è un sostantivo femminile, gli intervistati hanno associato invece aggettivi che ruotano intorno ai concetti di eleganza e bellezza.
Il potere delle parole
Grazie alle parole si strutturano le nostre immagini mentali e, tornando alla storiella di prima, se la parola non esiste, difficilmente posso tratteggiare con la mente il concetto che andrebbe a designare.
La lingua è in continua evoluzione, parole che fino a qualche anno fa suonavano strane all’orecchio, come sindaca e ministra, sono oggi diventate di uso comune. Perché il lessico serve, tra le altre cose, a delineare la realtà e, se quest’ultima cambia, è giusto che la lingua si evolva di conseguenza, superando l’ostacolo di chi ritiene che una donna che ricopre un ruolo tradizionalmente maschile possa vedersi riconosciuta solo utilizzandone la tradizionale etichetta. Ma c’è un altro aspetto fondamentale, che non può essere taciuto, e riguarda il potere delle parole non solo di descrivere la realtà, ma anche di cambiarla. Basti pensare al ruolo fondamentale che le parole hanno ricoperto in due situazioni opposte, vale a dire nelle rivoluzioni popolari e nell’ascesa delle dittature.
Sulla capacità delle parole di produrre effetti sulla realtà dice benissimo Gianrico Carofiglio nel suo illuminante saggio la manomissione delle Parole, dove cita i risultati di ricerche scientifiche secondo cui i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, ed essendo incapaci di gestire una conversazione, narrare storie e persino di nominare le proprie emozioni, liberano la propria frustrazione attraverso la violenza fisica.
Zagrebelsky e Disney
Anche sul potere delle parole di incidere sul perdurare degli stereotipi di genere si potrebbe scrivere un trattato, sarebbe sufficiente pensare ai significati sottesi ad espressioni come “sei mia”, o “l’ho posseduta”.
Quello che qui si vuole affermare è che la strada verso un’effettiva parità di genere è ancora lunga e in salita. Per ottenerla di certo non basta modificare solo il lessico. Tuttavia, se alla parola sindaca non associo l’immagine di un bipede maschio è proprio grazie alla capacità della lingua di suggerire possibilità.
Gustavo Zagrebelsky asserisce che il numero delle parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Più semplicemente, Walt Disney affermava che, se puoi immaginarlo, puoi farlo. E se l’hai fatto – aggiungo io – perché non trovare le parole per dirlo?
Michela Bilotta
(LucidaMente 3000, anno XVIII, n. 209, maggio 2023)