La condanna a due anni di carcere inflitta alle componenti del gruppo rock ha giustamente destato l’indignazione unanime del mondo occidentale. Ma vi è da fare qualche distinguo. E, ancora più grave, in Russia, la proibizione per un secolo dei Gay pride
Due anni di carcere. Per noi, democratici occidentali, un’enormità, per quello che sembra solo un reato d’opinione. Questa la condanna inflitta il 17 agosto a tre componenti del collettivo punk-femminista moscovita Pussy Riot, composto complessivamente da dieci “artiste” e una quindicina di collaboratori, specializzato in performances estemporanee e flash mob.
Quale il reato commesso? Il 21 febbraio 2012, per protestare contro la terza candidatura dell’ex agente segreto Vladimir Putin a presidente della Federazione russa, tre artiste del gruppo si sono introdotte nella Cattedrale ortodossa di Cristo Salvatore e, dopo essersi fatte il segno della croce, hanno cominciato a “intonare” (si fa per dire, vista la matrice punk e – ci sia consentito – sgangherata del gruppo) una canzone-preghiera alla Vergine Maria per chiedere la sua intercessione per la cacciata del “despota”: strana mescolanza di sacro e profano. In meno di un minuto sono state scortate fuori dalle forze dell’ordine. Ricordiamo i nomi delle giovani condannate: Maria Alekhina (24 anni) e Nadezhda Tolokonnikova (22 anni), in carcere dal 3 marzo, nonché Yekaterina Samutsevitch (29 anni), arrestata successivamente, il 16 marzo. Come si sa, il caro amico di Silvio Berlusconi, Putin, anche se accusato di brogli dalle opposizioni, ha vinto le elezioni del 4 marzo e si è insediato lo scorso 7 maggio.
Per amore del vero, ci sembra giusto evidenziare alcuni aspetti problematici della vicenda che forse non sono stati adeguatamente messi in rilievo dalla stampa occidentale. 1) Sul valore artistico delle Pussy Riot e delle loro performance nutriamo qualche dubbio. 2) Nella trovata della canzone da eseguire nella cattedrale, cioè in un luogo sacro (non si dice “scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”?), sarebbe da vagliare quanta sia la percentuale di voglia di libertà e protesta, quanta quella di desiderio solo di provocare, quanta di ingenuità, quanta, infine, di trovata pubblicitaria. 3) Noi democratici-liberali-occidentali, che non sopportiamo le donne velate, parlando per tale comportamento di reato, non dovremmo trovare positivo che delle donne si coprano il volto con dei balaclava, come fa il gruppo femminista moscovita, per, come dicono, tutelare l’anonimato. 4) Putin, forse strumentalmente, prima che fosse emesso il verdetto aveva chiesto “clemenza” nei confronti delle tre giovani. 5) Lo stesso ha fatto dopo la sentenza il patriarcato ortodosso, sebbene in precedenza, per voce del patriarca Cirillo I, avesse definito l’azione delle femministe un gravissimo, blasfemo sacrilegio da punire duramente. 6) La pena di due anni è il minimo di quelle previste in Russia per misfatti di tal genere. 7) La giudice Marina Syrova ha voluto specificare che la condanna deriva dal reato di offesa e odio verso la religione, escludendo ogni connotazione politica. 8) Il fatto che sia stata proprio una donna a condannare le Pussy Riot sgombera il campo da illazioni su “persecuzioni maschiliste ai danni di donne-femministe”.
Tuttavia, la condanna – e, ancor più, la durezza del trattamento, su cui preferiamo sorvolare – appare davvero angosciante sintomo di mancanza di libertà di espressione. C’è da chiedersi cosa sia cambiato all’ombra del Cremlino nel campo dei diritti civili e nei confronti dei “dissidenti” nel passaggio dal regime comunista-sovietico a quello attuale, che non ci sembra il caso di definire democratico-liberale. Evidentemente i fenomeni storici di lunga durata sono più duri a morire di un regime. Bene ha fatto dunque l’Occidente nel suo complesso a condannare la sentenza. Sono intervenuti Unione europea e Ocse, organizzazioni (come Amnesty International), governi (Usa, Francia, Germania, ecc.), personaggi del mondo dello spettacolo (Madonna, Sting, Peter Gabriel, ecc.). Possiamo aggiungere che non si è sentita la voce dell’Italia?
Ancora più grave la decisione di un tribunale di Mosca che ha confermato la legittimità di un regolamento cittadino che cancella fino al 2112 le manifestazioni a favore del riconoscimento dei diritti degli omosessuali. Dunque Gay pride vietati in Russia per i prossimi cento anni, anche se il leader del movimento Lgtb, Nikolay Alexeyev, ha già annunciato un ricorso alla Corte internazionale dei diritti dell’uomo. Intanto, la regione di Novosibirsk, nel sud della Russia, è la quinta ad approvare un pacchetto di misure per punire «la propaganda omosessuale in presenza dei minori». Ultima, triste considerazione: tra regimi dittatoriali asiatici e africani, Russia e vari paesi ex Urss tutt’altro che liberi e democratici, Cuba e altri regimi centroamericani, l’illiberale Cina, e nazioni mussulmane che basano le proprie giurisprudenze sulla sharia (fino alla lapidazione delle adultere), l’Europa e il cosiddetto mondo libero occidentale appaiono come una cittadella assediata. E, con la piena recessione economica in atto soprattutto nella nostra area, come pensare di proporsi come modello da seguire per le nazioni “emergenti”?
Le immagini: le Pussy Riot (by Igor Mukhin, Gnu Free Documentation License), la Cattedrale di Cristo Salvatore (la più grande chiesa ortodossa costruita, demolita nel 1931 dal regime sovietico – per edificare un “Palazzo dei Soviet” mai completato – e ricostruita tra il 1990 e il 2000), vista dall’esterno (Flickr upload bot by Russavia) e all’interno (Brücke-Osteuropa), e un logo del Gay pride bolognese del 2012.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)