Curiosità e aneddoti sul centralissimo simbolo del capoluogo emiliano raccontati dalla guida turistica Patrizia Gorzanelli. La storia passata si intreccia con quella presente
Vasco Rossi ha scelto una Bologna notturna per inaugurare la propria stagione musicale 2021. A inizio gennaio è infatti uscito il videoclip di Una canzone d’amore buttata via. L’artista di Zocca ha ricordato: «Ricomincia tutto nel posto da dove tutto è iniziato. Piazza Maggiore, quella piazza dove ho fatto il mio primo concerto nel 1979». Concerto improvvisato senza prove, un po’ per gioco, un po’ per scherzo, in chiusura di una manifestazione politica, nel cuore della città che lo adottò artisticamente più di 40 anni fa.
Nel videoclip, la “location” non funge soltanto da sfondo ma diviene protagonista, insieme al cantante, su note che accompagnano un testo che sembra essere scritto (anche) per Bologna. Ben diverso doveva essere il colpo d’occhio sulla piazza quel sabato sera del 26 maggio 1979; ben differente l’atmosfera. Che, invece, nel videoclip, è molto più vicina a quella che abitualmente domina l’immaginario collettivo dei bolognesi e non solo, quando si parla di piazza Maggiore: un grande spazio aperto ma raccolto; un ampio palcoscenico con quinte cariche di luce, suoni, voci, richiami, in cui i colombi svolazzano sotto il tetto del cielo, mischiandosi a gente che va e a gente che viene. Patrizia Gorzanelli (www.vagaboandando.it), guida turistica dell’Emilia-Romagna, ci illumina sulle origini di questo palcoscenico su cui un’intera città recita se stessa, da più di ottocento anni. E in cui i bolognesi – e non soltanto – sono stati protagonisti di eventi che hanno segnato la storia metropolitana e dell’intero Paese.
«Nel video si apprezzano tutti i monumenti della piazza, compreso il cosiddetto “crescentone” su cui il cantante cammina e si siede: il palazzo del Podestà, con le sue colonne ricoperte di rosette; il palazzo dei Notai, sobrio e appena un po’ defilato “comme il faut per personaggi di cotanta serietà”. Il palazzo comunale (palazzo d’Accursio), con le bandiere sul portale e le tende alle finestre del salone del Consiglio a dare una nota di colore: edificio che pare costruito per scherzo, con la facciata che cambia stile ogni dieci metri e un pontefice dal piglio truce e dal gesto benedicente che ne sorveglia l’ingresso. E poi c’è il monumento più gettonato: la basilica di San Petronio, con i suoi gradoni sempre popolati di varia umanità, in piedi, seduta, sdraiata, magari con una birra in mano, come negli esterni di un film che si rispetti. Per non parlare poi della fontana del Nettuno – con o senz’acqua – adiacente a palazzo Re Enzo, davanti alla quale occorre fare uno scatto verticale per riprendere anche “il gigante”».
Ci sono domande che molti bolognesi – e non soltanto – si pongono sulla piazza: perché il palazzo dei Notai è situato proprio nel luogo più importante della città? Chi era tale d’Accursio per dare il nome alla torre sovrastante il palazzo comunale? E perché, nel capoluogo che doppia il termine Libertas sul proprio vessillo, l’edificio a fianco del Nettuno si chiama palazzo Re Enzo? E ancora: come mai piazza Maggiore è il regno della stratificazione architettonica, dell’accostamento azzardato, del trionfo dell’incompletezza, del non finito? Una piazza work in progress, considerando anche San Petronio e il “crescentone”, quell’enorme salvagente costruito negli anni Trenta del secolo scorso per evitare ai pedoni i disagi del moderno traffico. Con il bordo rotto e una sbrecciatura di cui, ancora oggi, non si conosce la causa: forse il passaggio dei carri armati americani schierati in piazza quel 21 aprile 1945 in cui si ricominciò una volta di più a vivere, oppure quello di una pacifica e poderosa mietitrebbia in occasione di una mostra agricola?
La Gorzanelli ci risponde con questa premessa: «Piazza Maggiore è l’essenza politica, sociale ed economica di una città che si fa, a sua volta, essenza urbanistica e architettonica; a cominciare dalle dimensioni, che sono sempre state un bel problema a Bologna quando si trattava di tirar su edifici di una certa importanza. Forse è per questo che qui è nato l’umarell: ultimo dignitosissimo status nel cursus honorum del “bolognese doc”, che osserva perplesso i lavori in corso». La guida ci illustra poi la storia del capoluogo emiliano: «Allo scoccare del XIII secolo il Comune, ormai consapevole di avere un futuro nella storia, decide di farsi la casa nuova: lascia gli ormai angusti locali in curia Sant’Ambrogio – attuali vicolo Colombina e via de’ Pignattari – e, con l’occasione, predispone anche una piazza.
Erige un palazzo per ospitare le magistrature comunali e ciò che serve al loro funzionamento, compresi un archivio e un grande slargo: una novità assoluta per un’epoca in cui, da secoli, si era perso perfino il concetto di piazza. Per una città in vertiginosa crescita demografica e racchiusa da una cinta muraria è un investimento quasi folle. Trent’anni dopo il primo atto di acquisto (28 aprile 1200) nasce l’esigenza di costruire un’ulteriore cerchia di mura, un campo del mercato, l’attuale “piazzola”, nonché di ampliare il palatio, troppo piccolo per le esigenze del governo cittadino. A Nord del palatium già vetus sorgerà il palatium novum communis, unito al primo dall’incrocio di strade coperte, sovrastato da un’azzardatissima torre dell’Arengo e affiancato da un altro palazzo destinato a usi militari. Il suo destino è curioso: per 23 anni – prima di essere nuovamente adibito a utilizzi più consoni – è la dorata prigione di re Enzo di Sardegna, figlio di Federico II, catturato dai bolognesi a Fossalta.
“Curia et palatius communis vetus eu novum”: questo è il cuore di una città che si fa stato, vivendo poi tutte le contraddizioni insite in tale scelta, a cominciare dalle divisioni interne iniziate immediatamente. Per decenni infuriano le lotte per il potere tra fazioni che si fanno forti chi dell’antica nobiltà, chi dell’intraprendenza economica nelle arti e nei commerci e della conseguente ricchezza appoggiandosi, di volta in volta, anche a forze esterne alla città con l’interesse di mettere le mani sulla ricca Bologna. Per quasi tutto il Duecento le compagnie delle arti dominano la vita cittadina, ciascuna con una propria sede, spesso prestigiosa. L’Arte dei Notai – il cui massimo esponente fu Rolandino – domina su tutte; tanto da ottenere, sia pure soltanto a partire dal 1381, una sede con affaccio su piazza Maggiore».
L’origine della piazza risale dunque al Duecento. Ma la nostra guida ci svela, in particolare, come nasce l’odierno palazzo comunale. «Nel 1287 Rolandino decise l’acquisto di alcune case situate nell’angolo sud-ovest dell’invaso, fra cui quella del famoso giurista Accursio, ricavandone un enorme deposito di granaglie con cui fronteggiare le emergenze annonarie, allora all’ordine del giorno. Da qui la genesi del palazzo comunale, cosiddetto “palazzo D’Accursio”, destinato a diventare, nei secoli successivi, la sede del potere bolognese e inizialmente sede degli Anziani e Consoli, prima magistratura cittadina a dimorare nel nuovo palazzo. L’edificio si amplierà, tanto da ospitare le autorità comunali ma, soprattutto, i rappresentanti del papa, giuridicamente padrone di Bologna da quando, nel 1274, l’imperatore gli aveva ceduto ogni diritto sulla città.
L’esistenza secolare di un unico ingresso munito e difeso sulla piazza testimonia la graduale trasformazione del pacifico granaio in una vera e propria cittadella; fortificata e grande quanto la piazza, costruita a difesa di autorità esterne contro – e non certo per – i bolognesi. Con l’Unità d’Italia, il palazzo verrà aperto al pubblico, divenendo un punto di riferimento per le più svariate attività civili. Ancor prima del lungo dominio pontificio (1506-1796), il complesso diventa un palatium apostolicum molto simile nella struttura alla residenza papale di Avignone, con tanto di viridarium, un bellissimo giardino circondato da alte mura.
Vi risiederanno dapprima Alessandro V, un papa scismatico qui morto misteriosamente; quindi Eugenio IV Condulmer, che vi trasferisce la curia pontificia a seguito di qualche “problemino” verificatosi a Roma. Nel 1796 le truppe di Napoleone Bonaparte cancellano ogni simbolo cittadino che ricordi la presenza pontificia e nobiliare. Prima che Bologna diventi italiana, dopo i francesi arriveranno gli austriaci e nuovamente i legati pontifici, quindi i piemontesi. Il palazzo apostolico diviene l’attuale casa delle autorità comunali. La vocazione civica della piazza è evidente: il lato est è occupato da una quinta architettonica escogitata dal Vignola [l’architetto Jacopo Barozzi da Vignola, Vignola 1507-Roma 1573, ndr] nella seconda metà del ’500, per armonizzare l’indecorosa accozzaglia di costruzioni che vi sorgevano, unite appena dal portico detto “dei banchi” per la presenza dei banchi dei cambiavalute».
Concludiamo l’excursus su piazza Maggiore con la basilica di San Petronio. L’esperta chiarisce subito: «Non è, come in molti credono, il duomo della città. Che cosa rappresenti esattamente lasciamocelo raccontare dai bolognesi dell’epoca: “Desiderando di perpetuare, con l’aiuto di Dio, lo stato popolare e di felicissima libertà di quest’alma città di Bologna, affinché a noi e ai nostri figli, sia risparmiato il deprecabile giogo della schiavitù che più amaro sarebbe dopo aver gustato la florida libertà che Dio ci ha dato […] affinché il protettore e difensore di questo popolo e di questa città, San Petronio, interceda a protezione, difesa, conservazione e perpetuazione della libertà e stato popolare, stabiliamo […] di edificare una bellissima e onorevole chiesa sotto il titolo di San Petronio in quel luogo che sarà designato dagli Anziani […] in modo però che la fronte della chiesa si affacci sulla piazza nostra città”.
I componenti del Consiglio generale dei Seicento del Popolo e del Comune di Bologna così esprimono lo stato d’animo della città in quel lontano 1388, nel provvedimento che ne stabilisce la costruzione, dodici anni dopo l’inizio dell’ultimo fecondo periodo di regime comunale. Non durerà a lungo quel dorato scampolo di “felicissima libertà”. Ma basterà per lasciarci in eredità il palazzo dei Notai; la Mercanzia; e, ovviamente, la basilica, quel tempio votivo e civico che, nelle intenzioni non espresse, sarebbe dovuta essere la chiesa più grande della cristianità e che diventerà il simbolo più evidente delle tradizioni religiose e civili di Bologna. Nessun progetto di completamento, nei vari tentativi di individuarne uno, sarà mai giudicato all’altezza. E San Petronio rimane così com’è, a ricordarci che la conquista della “felicissima libertà” è una dura quotidiana fatica, mai definitiva».
Le immagini: una scena tratta dal videoclip Una canzone d’amore buttata via, componimento di Vasco Rossi; la guida turistica Patrizia Gorzanelli, che ci ha accompagnati in questo viaggio storico-culturale nel cuore del capoluogo emiliano.
Emanuela Susmel
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 182, febbraio 2021)