Il grande regista, di cui si doveva celebrare quest’anno il centenario della nascita, aveva già prefigurato in suoi tre film l’abbrutimento e l’imbruttimento della società italiana: nel sistema democratico, nel tessuto civile e comunitario, nella tv, nei rapporti tra i sessi
Una delle doti più misteriose dei grandi artisti è quella di prefigurare il futuro nelle proprie opere. Quasi un talento magico, anche se non si tratta, ovviamente, di chiaroveggenza o, ancor peggio, di cialtroneria, o di un “prenderci” per caso. Il grande scrittore, drammaturgo, pittore, musicista, cineasta, ha come compito principale la ricerca della bellezza; al suo interno, oltre a mille tematiche, a volte, in forma quasi visionaria, v’è la percezione delle tendenze verso cui scivola la società.
E quando parliamo di arte visionaria nel cinema, uno dei suoi principali esponenti è senz’altro Federico Fellini, di cui è appena trascorso il centenario della nascita (Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993). Una ricorrenza che ci è parsa inadeguatamente ricordata, e non solo per l’emergenza pandemia. I suoi film sono spesso stati caratterizzati da uno sguardo (nostalgico?) verso il passato; ad esempio, 8½ (1963) o Amarcord (1973). Tuttavia, molte delle ultime opere del maestro riminese sono amare prefigurazioni della futura società italiana (e, più in generale, occidentale). Ne abbiamo scelte tre: Prova d’orchestra (1979); La città delle donne (1980); Ginger e Fred (1986). Le esamineremo in ordine cronologico, svelando poco o nulla della trama e delle vicende narrate, sperando così di invogliarne alla visione i più giovani. Purtroppo temiamo, infatti, che gran parte di loro non abbiano goduto neanche di un capolavoro del regista romagnolo. Il primo film che abbiamo deciso di analizzare rappresenta l’estremismo delle rivendicazioni sindacali, sociali, politiche, nell’Italia degli Anni di piombo. Se un’orchestra, allegoria della società, dovrebbe, coi vari strumenti e pur con qualche dissonanza, rappresentare l’armonia della comunità, in quella di Fellini prevalgono il ribellismo, le pretese folli e anarcoidi, il chiasso, la cacofonia, la tendenza al “tanto peggio…”.
Il rischio ventilato nel finale del film è quello di una svolta autoritaria (il direttore d’orchestra che s’impone con aggressività e piglio dittatoriale) per ristabilire un po’ d’ordine. La città delle donne si dipana spesso all’interno di un’atmosfera trasognata, surreale, onirica. Il protagonista è un semplice uomo eterosessuale (l’interprete è Marcello Mastroianni), che ama le donne secondo il proprio normale immaginario maschile. Proprio la “normalità” viene aggressivamente messa sotto accusa da una turba di femministe (molte lesbiche o virago), violente, sguaiate, sciamannate, prepotenti, fanaticamente ideologizzate. Nonostante l’ammirazione e l’attrazione che il protagonista prova per il mondo femminile, è inesorabilmente condannato da una sorta di tribunale del popolo femminista. Ancora Mastroianni, con l’attrice moglie di Fellini, Giulietta Masina, è protagonista in Ginger e Fred; questo il nome d’arte di una coppia di ormai anziani danzatori, che avevano avuto una certa popolarità nel passato nell’imitare il celebre duo americano Ginger Rogers e Fred Astaire.
I due vengono invitati per un loro revival in un programma-contenitore della tv insieme a una miriade di singolari personaggi, molti davvero kitsch, di ogni tipologia, del passato e del presente. Si sa bene come caos e trambusto regnino poco prima che vada in onda un programma televisivo, ma i due poveretti vengono turbati dalla grossolanità, dalla trivialità, dalla bassezza del livello della trasmissione, cui, loro malgrado, sono ormai costretti a partecipare. Comune alle tre pellicole brevemente delineate è la denuncia del degrado, del disordine, della volgarità, della mancanza di rispetto per gli esseri umani, dell’eclissarsi del pudore, dell’equilibrio, del dialogo; e, ancora, del prevalere dell’insulto, dell’aggressione, verbale, se non fisica, fino alla vera e propria rissa. Beninteso, Fellini non è un regista “ideologico” e le sue opere non sono mai “a tesi”, alla ricerca di un messaggio a tutto tondo: l’arte, che trasfigura e sublima, è sempre libera e indiretta. Tuttavia, ahimè, se oggi ci guardiamo attorno, osservando sia la politica, sia il completo disgregarsi del tessuto comunitario e sociale, sia i rapporti tra sessi, sia lo scadimento della qualità dei mass media, in particolare dei programmi d’intrattenimento, ma anche di approfondimento, della tv, si deve ammettere che Fellini aveva avuto uno sguardo lungo. Molto lungo.
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 180, dicembre 2020)