Così recita un verso del gruppo musicale italiano I Cani, conquistato tanto quanto noi dai personaggi che affollano le pellicole del regista texano. Un’affascinante tecnica cinematografica divenuta ormai “cult”
Il 1° maggio 2020 Wesley Wales “Wes” Anderson ha spento 51 candeline e per il regista texano si avvicina, o si allontana – dipende dai punti di vista – la distribuzione della sua undicesima pellicola, intitolata The french despatch of liberty, Kansas evening sun. Un prodotto che si presenta come un elogio del mestiere di giornalista e che perciò suscita in noi una discreta curiosità.
Purtroppo, però, considerata l’attuale situazione legata al coronavirus, la data per vederlo in sala si è già protratta da luglio a ottobre e non è da escludere un’ulteriore posticipazione. Nel frattempo, ai fan e agli interessati non resta altro che ripassare le opere precedenti del nostro festeggiato, originario di Houston. In ordine cronologico, ricordiamo i famosi lungometraggi Un colpo da dilettanti, Rushmore, I Tenenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Il treno per il Darjeeling, Fantastic Mr. Fox, Moonrise Kingdom, Grand Budapest Hotel e L’isola dei cani. Molti ne conosceranno ormai l’inconfondibile taglio iconografico, consolidato attraverso l’esperienza di oltre vent’anni. La tipica ripresa dall’alto, le inquadrature perfettamente simmetriche, l’uso dello slow motion, gli inconfondibili costumi e la maniacale attenzione ai dettagli sono i suoi marchi di fabbrica, che rendono poetica la forma della sua arte cinematografica. Uno stile che riesce a farsi sia linguaggio (cioè mezzo per veicolare un dato messaggio) sia sostanza del messaggio stesso.
Entriamo nel vivo e partiamo dai personaggi, descritti saggiamente come «idiosincratici» nel brano intitolato, appunto, Wes Anderson, della band romana I Cani. Estimatori del regista, aprono la canzone, una citazione continua del suo stile, con il verso «Vorrei vivere nei film di Wes Anderson». In molti tenderanno a ricordare i caratteri di Grand Budapest Hotel (2014), perché è il film più noto e anche quello “riconosciuto” dall’universo hollywoodiano attraverso l’assegnazione di ben quattro premi Oscar.
Al cast, oltre ai consueti e fidati collaboratori come Bill Murray, Jason Schwartzman e Owen Wilson, si sono aggiunti numerosi professionisti, per esempio Willem Dafoe, Ralph Fiennes e Saoirse Ronan. In realtà, già in precedenza volti noti dello spettacolo si erano calati nei panni dei bizzarri caratteri ideati dal filmmaker. Nel 2001, a interpretare i cinque Tenenbaum, abbiamo Gwyneth Paltrow, Ben Stiller e Luke Wilson che ricoprono il ruolo dei tre figli, mentre i genitori sono Gene Hackman e Anjelica Huston. Simona Ariza, nel volume Wes Anderson (Sovera Edizioni, pp. 128, € 14,00), nota che all’interno di questo film emerge un tema proposto nei lavori successivi: la famiglia disfunzionale, inadempiente al proprio ruolo e, quindi, fallimentare nello sviluppo emotivo ed evolutivo della prole. Insomma, adulti e non che ostentano un’apparente maturità e allo stesso tempo un marcato infantilismo, quasi dimorassero a una “fermata intermedia” tra le due fasi esistenziali.
Un ulteriore specchio che riflette il medesimo paradosso caratteriale lo troviamo nel piccolo khaki scout Sam Shakusky (Jared Gilman), stella di Moonrise Kingdom (2012). Il ragazzo è indubbiamente più maturo dei suoi coetanei, ma rimane comunque un outsider dodicenne orfano. A ricordarglielo è l’amabile e inetto poliziotto, Capitano Sharp (Bruce Willis), quando esordisce così: «È probabile che tu sia più intelligente di me […] ma anche i bambini svegli infilano le dita nelle prese di corrente, a volte. Serve tempo per capire le cose, è stato dimostrato dalla storia: gli esseri umani commettono errori. Il nostro compito è quello di proteggervi da quelli pericolosi, se possiamo».
Un discorso breve, eppure «così delicato, così umano» per usare le parole di Martin Scorsese, perché, nonostante fossero originariamente riferite ai primi due lungometraggi, calzano benissimo pure per Moonrise Kingdom. La vicenda contiene in sé la massima espressione (tra le opere di Anderson) del topos letterario del viaggio. Esso viene esplorato sia nella modalità reale-fisica sia in quella intima-introspettiva. Lo scopo è naturalmente quello di riappacificarsi coi traumi del passato, accettare i fallimenti e acquisire più consapevolezza di sé. Possiamo, dunque, concludere affermando che, grazie all’ausilio di svariati strumenti, dalle inquadrature alle scenografie, dal sense of humor alla presenza ossimorica dell’assurdo col reale, dai dialoghi ai silenzi, il regista riesce magistralmente a fornire agli spettatori (dentro un contesto ludico) le coordinate per inquadrare la narrazione e comprendere lo stato d’animo dei protagonisti. In essi il pubblico si riconosce e, empatizzando con le loro imperfezioni, è portato a fare pace con le proprie.
Le immagini: in apertura una foto di Wes Anderson; la locandina del film Grand Budapest Hotel; Bruce Willis e Jared Gilman durante la scena del discorso che Sharp tiene al piccolo Sam.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XV, n. 173, maggio 2020)