Michela Murgia è una delle autrici più quotate dell’odierno panorama letterario nazionale. Non ama essere definita giovane (perché “a trentasette anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto”) e, fra le altre particolarità, non indossa gioielli preziosi, si definisce “di sinistra” e nel profondo non ha mai smesso di abitare e sognare la Sardegna nella stessa misura – più o meno – in cui io cerco di evitarla in tutti i modi (ecco perché in fondo per questo la ammiro, perché quello citato è un dono, come la Fede, che non avrò mai).
Michela ha scritto il romanzo Il mondo deve sapere (IBS Edizioni, 2006), e nel 2008 ha pubblicato Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede (Einaudi). Nel 2009, edito per i Supercoralli di Einaudi, il suo romanzo Accabadora ha vinto il premio Dessì.
Accabadora – Il romanzo Accabadora racconta la storia della piccola Maria, cresciuta in una famiglia priva di calore che da tempo l’ha relegata al confine degli affetti, e della vecchia Tzia Bonaria, roccia solitaria che nasconde silenziose aspirazioni affettive e materne. Entrambe, dal momento in cui la piccola Maria viene accolta in casa dall’anziana donna, costruiscono insieme un rapporto familiare elettivo capace di andare oltre le parole e la manifestazioni affettive di tipo esteriore, un rapporto madre-figlia (la bambina è esattamente una fill’e anima, ovvero figlia dell’anima) che si baserà sulla consapevolezza dell’esserci e sulla magia degli sguardi. Bonaria incanterà Maria riservando per se stessa un mondo notturno fatto di uscite silenziose nel cuore della notte, perché Bonaria è un’Accabadora, una donna che secondo la tradizione sarda si occupava di finire i malati gravi, di spezzare il sottile filo che tratteneva i malati più disperati dall’oltrepassare il confine fra sofferenza e libertà della morte, la dispensatrice di una dolce morte.
Cara Michela, nel tuo libro la durezza e la crudeltà della vita vengono spesso rappresentate con metafore e immagini forti. Nel primo capitolo di Accabadora, per esempio, Maria gioca a fare le torte di fango impastando terra e formiche vive che “muovevano le zampe nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo”. Il fiore spesso nasconde una morte, la vita nasconde la morte. Cos’è per te la morte e che rapporto hai con essa nei giorni della tua vita?
«È una idea con la quale sono riconciliata, nella misura in cui può esserlo un essere umano innamorato della vita. Credo dipenda dal fatto che appartengo all’ultima generazione che ha avuto il beneficio psicologico di essere portata a vedere fisicamente i proprio morti, rigidi e bianchissimi sui letti di casa, dove erano accompagnati fino all’ultimo respiro; i miei nipoti e i bambini della loro età vedranno invece i morti solo alla tv e nei video games, perché la morte è stata spostata dal livello della normalità a quello della virtualità. A trentasette anni ho fatto testamento da dieci».
Il primo e unico affetto di Maria è Tzia Bonaria, un’anziana – “vecchia da quando era giovane” – e taciturna donna, capace però di esserci sempre, silenziosamente, “appoggiata allo stipite come a reggerne i cardini”. Gli affetti che tu rappresenti sono ipotrofici, fermi, quasi scolpiti, sono in controtendenza con le lacrime e i pianti di una certa letteratura. Risentono forse del ritegno dignitoso della Deledda o anche di un modo tutto tuo di intenderli?
»La Deledda ha descritto quello che conosceva: diversamente che nel Meridione d’Italia, la sguaiatezza non appartiene ai sardi (nella stessa misura in cui non appartiene ai calabresi o ai siciliani. Personalmente sono molto sguaiato! [ndr]), maestri nel contegno dei sentimenti al punto da pagare qualcun altro anche per piangere i propri morti. Persino la lingua è rivelatrice di questo pudore: la parola “amore” in sardo non esiste, sostituita dalla categoria concettuale del s’istimma, un sentimento molto più complesso e razionale del puro moto del cuore. S’istimma è una consapevolezza dell’altro che tiene conto del suo valore complessivo, etico e sociale, e che motiva il trasporto. Ci si può innamorare anche di uno che non ti merita, ma s’istimma è solo per chi ne è degno, ed è il sentimento supremo tra due sposi».
Gli spazi nel tuo romanzo sono concreti, esiste una casa, esiste una stanza, ma la descrizione non invade mai il mondo extradiegetico. Tu “indichi” la forma e la materia ma poi deleghi al lettore il gesto finale di originare lo spazio finale: è così anche per la piccola protagonista alla quale, nella nuova dimora, non viene detto di sentirsi a casa propria, bensì le viene regalata tutta una casa e tutto il tempo per potersene appropriare. Cosa ne pensi?
«La scelta di essere sobria nel descrivere gli spazi è stata valutata da alcuni commentatori come un difetto, una mancanza di respiro della scrittura (o dello scrittore), sempre compressa in pochi cenni molto plastici, ma sostanzialmente delegati al lettore nella loro definizione. La verità è che da lettore patisco moltissimo il didascalismo minuzioso di certe descrizioni, e tendo a liquidarle come manierismi, oltre che come forma di disistima per la responsabilità di chi legge di “prendere la forma” della storia. Il sardo in questo aiuta, perché ha di molto potente l’approccio metaforico alla realtà: per approccio mentale alla realtà non metterò mai in una narrazione un aggettivo se posso usare un’immagine efficace; ma le immagini efficaci sono le immagini aperte, storie nelle storie, che ciascuno interpreta secondo l’esperienza che ne ha».
La figura della vecchia Accabadora, specialmente se affiancata alla figura della bambina, emerge granitica dalle pagine del tuo libro: Bonaria Usai è sicuramente una donna che ha sofferto, ha perso in fretta l’amore e ha sempre badato a se stessa in modo autonomo. Una figura per certi versi beauvoiriana. Questo personaggio nasce da una visione globale che tu hai della donna sarda, oppure da esempi parentali? Quanto sei femminista e quanto non lo sei?
«Sono due domande che è curioso vedere affiancate, e il fatto che lo siano mi fa pensare che tu associ il femminismo a una idea di donna granitica e autodeterminata».
Non è che io le associ, trovo che, in questo panorama di vite e persone di un’Italia degli anni Cinquanta, il personaggio di Tzia Bonaria emerga non solo per il suo ruolo sociale, ma anche per le sue scelte quantomeno originali, come quella di accogliere in casa una bimba come Maria (scelta che d’altronde nessuno nel paese capisce veramente). Una donna forte che nei limiti della società del periodo compie un gesto di autodeterminazione. Dico bene?
«Con uomini così fragili come quelli che racconto, una donna la fragilità non se la poteva proprio permettere. La mia idea di femminismo, o più propriamente di umanesimo, è un mondo in cui nessuno debba essere definito per necessità».
Una domanda un po’ più personale: sei molto brava a scrivere poeticamente in prosa, e dunque se, come in Inkheart, potessi scrivere qualcosa che diventasse realtà vera per la Sardegna, cosa scriveresti?
«Diamine, l’indipendenza! Scriverei storie di indipendenza sarda».
L’eutanasia è un argomento che nel tuo romanzo rimane sullo sfondo, dietro il tenero rigore dell’amore filiale e un po’ strano che nasce fra la vecchia Bonaria e la piccola Maria: quanto questa società edonistica ha enfatizzato la morte e la vita e quanto invece le antiche società la affrontavano con maggiore spontaneità?
«Nella tragedia greca l’enfasi sulla vita e sulla morte aveva valore catartico e rappresentativo. Nella tragedia moderna, che non ha più nei palchi dei teatri il luogo dove fare elaborazione di sé, la vita e la morte sono ridotte alla medesima semplificazione, e il luogo dove si manifesta la nostra cattiva coscienza è il linguaggio, che le lega entrambe all’idea della malattia. Basterebbe riflettere un attimo sull’uso che facciamo comunemente del termine “sterile”. Se da un lato è il contrario di “fertile”, dall’altro indica l’assenza assoluta di contaminazione, l’apice dell’igiene sicura, come se il generare implicasse anche la disposizione a farsi in qualche modo contaminare dall’altro, a correre qualche rischio in più rispetto alla purezza assoluta del bastare a sé stessi. D’altro canto, questa ambivalenza sembra suggerire anche un legame ideale tra la fertilità e la malattia, seminando l’idea che la vita sia una epidemia contagiosa da cui si fa bene a difendersi come si può. Per questo l’espressione comune sull’avere “rapporti protetti” solletica il legittimo dubbio su cosa sia esattamente quello da cui ci si sta proteggendo. Anche la morte, e la vecchiaia come sua anticamera, sta subendo questa progressiva assimilazione alla patologia. Osservo con sconcerto l’introduzione del linguaggio medico nella cosmesi anti-age femminile, all’interno del quale i normalissimi processi di cedimento del corpo vengono descritti con termini tecnici che ricordano quelli delle fratture e dei tumori. I cosmetici vengono venduti sempre di più sulla spinta del bisogno indotto di salute, non tanto di quello estetico, come se la vecchiaia e la morte fossero patologie che ancora non sappiamo curare, ma che cureremo, affrancandocene. Questo continuo rapportarci al nostro limite naturale con spirito di negazione suscita ovviamente una marea di contraddizioni; il modo isterico in cui si dibatte di eutanasia ne è una prova, ma vorrei che esistessero posti dove poter condividere anche le riflessioni a monte, non sempre e soltanto la rissa televisiva con l’Eluana del momento corpore praesenti».
Ti ringrazio per aver dialogato con me. Continueremo a leggerti!
Riferimenti telematici:
http://michelamurgia.altervista.org/
L’immagine: particolare della copertina del romanzo Accabadora, edito da Einaudi.
Matteo Tuveri
(LM EXTRA n. 20, 15 aprile 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 52, aprile 2010)
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