Pochi hanno sentito parlare di Vanguard, Black Rock, State Street Global Advisor o Blackstone, oppure di sigle quali Kkr o Cvc… E ancor di meno sanno di cosa si tratta e perché costituiscono un pericolo per quel che resta delle democrazie e persino per le produzioni economiche più sane…
Se al povero cittadino comune, travagliato da un decennio di crisi economica, da più di due anni di misteriosa epidemia e ora dal rischio di un conflitto nucleare, si chiedesse chi ha maggiore potere e capacità di indirizzare le sorti del pianeta, le risposte potrebbero essere di vario genere. I più ingenui risponderebbero col nome di qualche stato, o di un leader politico, o di qualche esercito; altri indirizzerebbero la propria attenzione sulle grandi industrie e sulle multinazionali ormai entrate da tempo nel linguaggio comune e nell’insegnamento scolastico; i complottisti su fantomatiche organizzazioni segretissime.
I più svegli nominerebbero i padroni delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, i colossi della Silicon Valley, del web, del commercio a distanza, o Big Pharma. Forse sbaglierebbero tutti. Perché i nuovi dominatori del pianeta, certamente dal punto di vista finanziario, e quindi economico, nonché – aspetto ancora più preoccupante – in grado di influenzare pesantemente politica e cultura, sono ancora meno noti, più occulti, ma molto, molto più potenti. A chi dicono qualcosa parole come Vanguard, Black Rock, State Street Global Advisor o Blackstone, oppure sigle quali Kkr o Cvc? In termini anticapitalistici e marxisti di un certo tempo fa, sarebbero definiti squali, che si muovono a loro agio nel mare della finanza globale. Chiariamo in anticipo che il campo dell’economia e della finanza, per di più infarcito di termini tecnici anglosassoni, è ostico, e di certo non pretendiamo con questo nostro articolo di essere chiari ed esaustivi. Inoltre, non essendo esperti del campo, chiediamo venia in anticipo per eventuali imprecisioni. Pertanto consigliamo al lettore di cliccare sui link e, comunque, eseguire altre ricerche. Cominciamo dai fondi d’investimento. Quelli più in voga (perché relativamente meno rischiosi per i clienti) sono gli Etf, ovvero gli Exchange Traded Fund. Essi appartengono alla tipologia Etp (Exchange Traded Products), ovvero alla macrofamiglia di prodotti a indice quotati. Diversamente dai tradizionali fondi comuni d’investimento e dalle Sicav (società di investimento a capitale variabile) e dalle Sicaf (a capitale fisso), hanno gestione passiva, ovvero sono svincolati dall’abilità del gestore, che minimizza le proprie decisioni di portafoglio usando algoritmi che monitorano l’andamento borsistico.
In tal modo diminuiscono i costi di transazione e l’imposizione fiscale sui guadagni in conto capitale. Glauco Benigni ne Lo spettro dei 3 Big spiega che gli Eft «sono quotati in borsa con le stesse modalità di azioni e obbligazioni. Gestione passiva significa che il loro rendimento è legato alla quotazione di un indice borsistico (che può essere azionario, per materie prime, obbligazionario, monetario etc.) e non all’abilità di compravendita del gestore del fondo. L’opera del gestore si limita a verificare la coerenza del fondo con l’indice di riferimento (che può variare per acquisizioni societarie, fallimenti, crolli delle quotazioni ecc.), nonché correggerne il valore in caso di scostamenti tra la quotazione del fondo e quella dell’indice di riferimento, che sono ammessi nell’ordine di pochi punti percentuali (1% o 2%)». Tutto ciò «rende tali fondi molto convenienti per il cliente comune: solo circa lo 0,2% del risparmio amministrato, contro circa il 2% di un fondo attivo. Sicché oggi occupano il 40% del totale delle azioni del mondo».
Tutto chiaro? Mica tanto! Ma è la finanza, baby! E siamo solo ai prodotti e alle nozioni più elementari. E beh? Cosa c’è di male? Chi ha soldi cerca di investire per proteggerli dall’inflazione nuovamente rampante o, meglio ancora, per aumentarli. La questione-chiave è che al mondo pochissime società gestiscono quasi interamente tali prodotti finanziari. Le tre maggiori vengono definite appunto Big Three e sono The Vanguard Group, BlackRock e State Street Global Advisor (vedi Ecco le 10 società di gestione più grandi del mondo per patrimonio). Sarebbe da aggiungere pure il Blackstone Group (noto in Italia anche per una controversia legale con il gruppo Rcs MediaGroup sulla vendita del palazzo storico del Corriere della Sera a Milano, senza che si sia arrivati a un riconoscimento per la società italiana). Ecco alcuni numeri, impressionanti, avvertendo che essi sono sempre in evoluzione. Nel 2019, sommati, i tre gruppi gestivano 16 trilioni di dollari e controllavano il 40% delle azioni delle maggiori corporation americane e addirittura, sempre insieme, erano il maggior azionista nell’88% delle società presenti nell’indice Standard & Poor’s 500. Il patrimonio gestito da BlackRock è pari ai Pil di Francia e Spagna messi assieme. Se guardiamo al giro d’affari e al fatturato, i loro dipendenti sono relativamente pochi: in ordine, 17.000, 15.000, 2.500. BlackRock ha quote nelle dieci più importanti banche europee ed è presente anche in Unicredit, Banca Generali, Fineco.
È evidente che tale massiccia presenza in tutto il mondo possa influenzare l’economia e la politica dei singoli Stati. Ormai è noto che la “crisi dello spread” che portò alla caduta del Governo Berlusconi nel novembre 2011 avvenne anche per spinte “esterne” (leggi qui). In genere per quella “deposizione” si pensa a pressioni politiche internazionali e, segnatamente, degli Usa e dell’Unione europea. Tuttavia, un’altra ipotesi, riportata da un periodico certo non tenero con il Cavaliere (vedi Germano Dottori, BlackRock, il Moloch della finanza globale, in Limes, n. 2, 2015), e poi ripresa da Maria Grazia Bruzzone (Fu davvero BlackRock a ispirare il “cambio di scena” del 2011 in Italia?, in La Stampa, 12 aprile 2015), dirige i propri sospetti proprio su BlackRock. Le motivazioni di quest’ultima non erano certo l’antiberlusconismo, ma l’obiettivo di far precipitare la crisi del debito sovrano italiano per comprare a prezzi stracciati le azioni delle nostre aziende. Riuscendovi: «A fine 2011 la Roccia aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi». Ma se l’Italia vi sembra un pesce piccolo e Silvio Berlusconi uno che non era degno di governarci, leggete quanto ha scritto Mauro Del Corno su il Fatto Quotidiano (8 gennaio 2021): Usa, le scelte di Joe Biden: la Casa Bianca assomiglia sempre di più ad una succursale del colosso finanziario Blackrock.
Un esempio lampante è l’ambientalismo, tanto di moda (a parole) negli spot pubblicitari delle aziende, che, all’improvviso, si scoprono ecologiste per purissimi motivi filosofici, spiritualisti e di rispetto dell’ambiente. È un caso nel quale l’intreccio tra media, interessi economici e politica è evidente. Nel 2019 Greta Thunberg viene nominata dal Time «Persona dell’anno». Pochi mesi dopo, BlackRock (nonostante non fosse assolutamente un esempio di “finanza etica”, avendo sempre fatto tanti investimenti nel settore degli idrocarburi e non essendosi mai curata di sostenibilità e condizioni dei lavoratori) diventa “ambientalista”. Il suo deus ex machina, Laurence D. Fink invia una missiva ai propri dirigenti in cui sottolinea che «il cambiamento climatico è diventato un fattore determinante per le prospettive a lungo termine delle aziende e che siamo sull’orlo di un fondamentale rimodellamento della finanza». Come l’Unione europea, il futuro presidente statunitense Joe Biden mette al centro del suo programma elettorale la lotta ai cambiamenti climatici e la difesa dell’ambiente. In tempi utili per trarre vantaggio dalla nuova ideologia del potere, le aziende si posizionano per trarre benefici dalla cosiddetta transizione ecologica, indirizzando i loro investimenti verso nuovi settori quali le energie rinnovabili, le automobili elettriche, il cibo vegano o proprio fintamente “sano”, nonché mettendosi in fila per i miliardi di finanziamenti previsti.
Un altro intreccio in grado di condizionare la vita economica (e non solo) di intere nazioni è quello tra i grandi fondi di investimento e le agenzie di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch Ratings). Queste ultime dovrebbero essere semplici strumenti di valutazione oggettiva delle situazioni economiche, ma in realtà le influenzano coi loro sprezzanti giudizi. Ebbene, nel loro azionariato troviamo le solite “Big” e tante altre corporation… Del resto, tutti i rapporti tra fondi, aziende e agenzie di rating sono un inestricabile gioco di scatole cinesi, con quote azionarie degli uni nelle altre e viceversa. Anche lasciando da parte l’economia, si è visto come l’influenza di tali gruppi su elezioni politiche, linee di indirizzo, media, tendenze culturali, siano inquietanti e incompatibili con libere democrazie. Scrive Ugo Mattei nel saggio Il diritto di essere contro (Piemme, 2022, pp. 178-179) che i grandi pacchetti azionari «controllano tanto l’industria farmaceutica quanto quella della comunicazione di massa nonché la filiera del cibo industriale e della sua distribuzione e ovviamente gran parte degli armamenti Usa». Tale enorme potere con la connessa attività di lobbismo non può che avere un enorme impatto sulla politica dei paesi “liberaldemocratici”. Così la governance economica mondiale prevale nettamente sul governo politico degli Stati. E il potere dei grandi gruppi di speculazione finanziaria non si arresta più. Guido Fontanelli, nel suo Sempre più padroni del mondo (in Panorama, n. 19, 4 maggio 2022), cerca di gettare un po’ di luce su altri oscuri prodotti finanziari: i fondi di private capital.
Si tratta di «investimenti rischiosi e a lungo termine, la quota destinata a essi non può superare il 10% del portafoglio finanziario del risparmiatore». Eppure, poiché oggi si preferisce giocare in borsa che rischiare di fondare o investire su un’attività produttiva reale (vedi Perché l’odierno capitalismo finanziario è sempre più incontrollabile), anche tali investimenti rendono tanto, soprattutto a chi li controlla: «Gli attivi in gestione dei fondi private sono cresciuti lo scorso anno al massimo storico di 9.800 miliardi di dollari. Le prime cinque società del settore gestiscono un patrimonio complessivo di 1.850 miliardi, cifra smisurata che si avvicina da sola agli abbondanti risparmi di tutti gli italiani (1.900 miliardi di dollari)». Oltre a Blackstone, i maggiori gestori di private capital sono sigle che non avete mai sentito, come la newyorchese Kkr (459 miliardi di dollari di patrimonio gestito) o la britannica Cvc (122 miliardi). Che tutto questo denaro serva per comprare aziende sane o in difficoltà per specularci sopra, per acquisire debiti sovrani di intere nazioni o per foraggiare l’industria degli armamenti, poco importa (vedi La finanza spietata: dal boom dei titoli degli armamenti allo sciacallaggio su aziende in crisi e sui debiti sovrani).
È evidente che la finanziarizzazione assoluta dell’economia costituisce una iattura oltre che, come s’è visto, per le democrazie, anche per le aziende manifatturiere sane e, di conseguenza, per i loro occupati. Non conta se ciò che esce da una fabbrica dopo tanto lavoro è utile, sano e buono per le masse, ma se “il mercato finanziario” dirige o meno le proprie speculazioni su un’azienda o un’altra, su una materia prima e una risorsa naturale o un’altra, su una produzione o un’altra… Per fortuna il Governo Draghi aiuta gli italiani (ricchi) a difendere i propri risparmi. Qualcuno ha saputo che dallo scorso 16 marzo agli investitori non professionali non occorrono più 500mila euro, ma “solo” almeno 100mila per entrare nei fondi di private capital e di real estate (leggi È ufficiale: si abbassa la soglia per investire nei Fia)? Però, purché tale cifra non sia superiore al 10% del portafoglio finanziario del risparmiatore/speculatore. Ebbene, sì: l’attuale esecutivo ha proprio a cuore gli interessi degli italiani, soprattutto di quelli più poveri…
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Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 198, giugno 2022)
Ma ho sentito parlare di queste agenzie multinazionali e dire che c’è qualcuno ancora più ricco di Amazon o TESLA è riduttivo. Sono davvero dei colossi e godono del dominare la scena del gioco del pianeta. Speriamo che facciano scelte buone, o almeno un pochino a vantaggio di persone comuni….