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Home VECCHI ARTICOLI IL PIACERE DELLA CULTURA

Come il cinema “mostra” i disabili

Giuseppe Licandro by Giuseppe Licandro
2 Aprile 2006
in IL PIACERE DELLA CULTURA
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La disabilità ha sempre interessato il mondo del cinema, ora in chiave grottesca e orrida, ora in forma pietistica e melensa, ora secondo un’impostazione decisamente più corretta e rispettosa della dignità delle persone. Antonio Tripodi nell’articolo La rappresentazione cinematografica dell’handicap e la sua edulcorazione nella società “politicamente corretta” (cui rimandiamo per maggiori approfondimenti sull’argomento), pubblicato sul n. 3 di direfarescrivere, sottolinea giustamente come “la rappresentazione della disabilità nel cinema abbia seguito quella che è stata la maturazione della visione sociale del problema. Secondo una visione tradizionale della società occidentale, si è malvagi perché si è deformi, ma anche si è deformi a causa della propria malvagità”.
L’accostamento fra deformità (o disabilità in genere) e malvagità ha caratterizzato, infatti, una parte rilevante del cinema mondiale nella sua fase iniziale, anche in opere di grande spessore artistico come Il gabinetto del dottor Caligari (1919) di Robert Wiene, Nosferatu il vampiro (1922) di Friedrich Murnau o il celebre Frankenstein (1931) di James Whale. Con una sola illustre eccezione: Freaks (1932) di Tod Browning, un film in cui i “mostri” vengono rappresentati, invece, come vittime della cattiveria delle persone “normali”, che li sfruttano e li maltrattano senza scrupoli.

Dalla “malvagità” al “buonismo” – Nell’ultimo trentennio del Novecento, grazie alla diffusione di idee più progressiste e democratiche, l’approccio coi disabili è radicalmente mutato e spesso si è proposta anche nel cinema una visione corretta della “diversità”, come stanno a testimoniare Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman, The Elephant Man (1980) di David Lynch o Figli di un dio minore (1986) di Randa Haines, film che individuano il punto di vista dei disabili e li presentano come persone da rispettare, prima che da compatire. Questa tendenza è, purtroppo, degenerata in produzioni cinematografiche talvolta sdolcinate, nelle quali è prevalso il ritratto stereotipato del disabile affabile e divertente, che, nonostante le incomprensioni e i malintesi, è comunque accettato dagli altri ed è addirittura capace di cambiare in meglio la vita del prossimo: un esempio in tal senso è costituito dal film L’ottavo giorno (1996), girato dal regista Jaco Van Dormael, e, sotto taluni aspetti, anche dal precedente Rain man (1988) di Barry Levinson. Recentemente si è affermato, grazie al contributo di validi registi, un punto di vista ancor più articolato, in cui l’handicap viene sottratto ad ogni lettura meramente ideologica ed è finalmente inquadrato in termini realistici e oggettivi, senza indulgere neppure in patetiche commiserazioni. Ci riferiamo a film come Le chiavi di casa di Gianni Amelio, in cui si narra il rapporto (a volte scontroso, a volte allegro) fra un giovane padre e un bambino disabile, oppure Million dollar baby di Clint Eastwood, ambientato nel mondo del pugilato statunitense, che descrive il legame quasi filiale di una “boxer” con un anziano allenatore e che riserva un finale crudo e drammatico, allorché l’uno aiuta l’altra – totalmente paralizzata dopo un cruento incontro di pugilato – a morire.

Mare dentro – Il film sulla disabilità che ci ha maggiormente colpito, per bellezza espressiva e profondità di contenuti, è certamente Mare dentro (2004), capolavoro del regista spagnolo Alejandro Amenábar che nel 2005 ha vinto l’Oscar a Hollywood come miglior film straniero – oltre ad aver ricevuto il Leone d’argento alla mostra cinematografica di Venezia del 2004 e ben 14 Premi Goya. Amenábar si è ispirato ad una vicenda realmente accaduta: il caso di Ramòn Sampedro, un giovane galiziano che nel 1968 rimase completamente paralizzato dopo un assurdo incidente occorsogli mentre si tuffava da uno scoglio (si schiantò contro il fondo del mare) e che visse per circa trent’anni in uno stato di totale infermità fisica, anche se poteva parlare con gli altri. Egli – che imparò anche a scrivere, servendosi della bocca, e compose persino un libro di poesie, da cui è tratto il titolo del film – reclamò per lungo tempo il diritto di porre fine alla sua penosa esistenza, invocando la “morte dolce”. Dopo aver inutilmente perorato la sua causa presso il Tribunale di La Coruna e addirittura presso il Tribunale dei diritti umani di Strasburgo, Ramòn riuscì infine a portare a compimento il suo intento e, aiutato da un gruppo di amici, si suicidò (nel film si descrive con rapidi flash la complicata trama attraverso cui il protagonista viene messo nelle condizioni di poter scegliere di morire, senza che nessuno possa essere imputato della sua morte). Amenábar, attraverso la strepitosa interpretazione dell’attore Javier Bardem, ripercorre la vita di Sampedro, soffermandosi sulle sue relazioni familiari e sui legami affettivi da lui instaurati con alcune donne, in particolare con una ragazza galiziana (che nel film si chiama Rosa e che svolge un ruolo decisivo, permettendo al protagonista di realizzare il suo desiderio).

Il problema dell’eutanasia – Avvolto da un’atmosfera suggestiva, con una fotografia splendida, dialoghi intensi e momenti talvolta persino divertenti, il film affronta con lucidità il problema dell’eutanasia, descrivendo i punti di vista di chi è pro e di chi è contro tale pratica. Il regista spagnolo, in verità, si esprime apertamente in suo favore: il comportamento di Rosa, che dà una mano per suicidarsi al protagonista tetraplegico, viene infatti presentato come un vero e proprio “atto di amore” nei suoi confronti. La questione è in sé molto delicata e di difficile soluzione. Lasciamo pertanto ai lettori il compito di stabilire se e fino a che punto sia legittimo aiutare a morire una persona sofferente. Noi, tuttavia, comprendiamo il punto di vista di Amenábar (e di Sampedro), perché ci rendiamo conto che – in casi di particolare gravità, ben circostanziati e su esplicita richiesta degli interessati – sia ammissibile porre fine ai patimenti di un malato incurabile. Siamo, inoltre, fermamente convinti che, quantomeno, si dovrebbe evitare il crudele “accanimento terapeutico”. In tal senso sta operando il noto oncologo Umberto Veronesi, impegnato a far introdurre anche in Italia il “testamento biologico”, che consentirebbe ai cittadini di sottrarsi a terapie inutili e dolorose, e l’associazione LiberaUscita (www.liberauscita.it).

Giuseppe Licandro

(LucidaMente, anno I, n. 10, ottobre 2006)

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