Dal diario di bordo pubblicato quotidianamente sul blog di “Repubblica” al libro. Presentato a Bologna “Teatro in viaggio. Lungo la rotta dei migranti” di Pietro Floridia (Edizioni Nuova S1)
Si era in libreria, lo scorso 23 gennaio, ma era quasi come essere a teatro. Mancavano solo le luci abbassate in sala. Sul palcoscenico della Ambasciatori di Bologna Pietro Floridia – drammaturgo, regista e direttore del Teatro dell’Argine – ha vestito i panni (inconsueti a suo dire) dell’attore, scegliendo di raccontare in forma di narrazione teatrale il suo viaggio in Africa, da cui nasce il suo libro Teatro in viaggio. Lungo la rotta dei migranti (Edizioni Nuova S1, pp. 112, € 12,00), in pratica la pubblicazione su carta del diario di bordo, apparso quotidianamente sul blog di Repubblica.
Un viaggio a ritroso «nel tempo più che nello spazio» – riconosce Floridia col senno di poi –, da San Lazzaro di Savena, periferia di Bologna, dove è di casa la sua compagnia teatrale, al villaggio di Diol Kadd in Senegal (in cui ad attenderlo c’era l’amico Mandiaye N’Diaye, storico attore del Teatro delle Albe di Ravenna), passando per Marocco, Sahara Occidentale e Mauritania, sulle rotte di quegli uomini e quelle donne che l’Africa l’hanno lasciata, inseguendo, quasi sempre per necessità, un miraggio chiamato Occidente.
Di queste storie – di chi ce l’ha fatta, di chi è stato respinto o è tornato indietro – la compagnia del Teatro dell’Argine tante ne ha sentite e altrettante ne ha fatte proprie. Da anni infatti lavora con migranti e rifugiati politici. E così, con questo bagaglio di testimonianze e di contatti, Floridia parte (era il dicembre del 2010) «per capire come vivono questi ragazzi prima di arrivare da noi», per fare teatro nei villaggi che attraverserà, ricevendo in cambio altre storie, altri personaggi da portare a casa. Ma soprattutto parte per dare un senso a quel “discorso del quasi” che lì per lì non aveva compreso, ma che ora riconosce essere stato una delle leve principali del suo partire. «Guarda che noi non siamo solo immigrati. Come immigrati noi siamo un quasi» gli aveva detto una volta Zin, uno dei ragazzi marocchini che lavora con lui. «Noi non siamo mai qui del tutto, siamo sempre quasi qui, quasi ora. Lontano da qua, a casa nostra, forse, siamo stati senza quasi».
E, allora, eccolo al caffè Hafa di Tangeri, sospeso tra cielo e mare e con lo sguardo rivolto alla Spagna: il luogo dell’attesa, lo chiamano tutti. E poi a Casablanca, ad ascoltare il racconto di Said e della bicicletta spedita dallo zio francese. Le storie e i personaggi del monologo andato in scena in libreria le ritroverete tutte nel libro. Anzi, nel libro troverete molto di più: storie volutamente custodite e lasciate alla lettura, integrate da riflessioni dell’autore sul fare teatro e sull’essere spettatori e da appunti di altri suoi viaggi che hanno preceduto questo in Africa e che fanno parte di un progetto teatrale più ampio chiamato Del diluvio e di altre sopravvivenze. Ma, si sa, il “racconto vivo” emoziona sempre di più. E fa ridere di più, visto le reazioni del pubblico presente.
La voce di Floridia che accelera quando racconta del suo compagno di viaggio Gabo (Gabriele Silva, scenografo, anche lui sul palcoscenico a dirigere musica e immagini in religioso silenzio, com’è nel suo stile): «Per me un misto tra un guerriero maori e un black bloc, dotato di mani geniali». “Personaggio” che il regista ha voluto coinvolgere in questo suo viaggio «perché il Gabo è un pazzo e io sapevo che per avere il coraggio di partire avevo bisogno di un po’ della sua follia». La voce dell’autore che si fa dolce e accorata quando imita il Gabo che parlava al Lando. Il Lando, «l’anello mancante tra un cammello e un carretto», lo scassato Land Rover che li ha accompagnati per due mesi (e riportati a casa!) a sessanta all’ora in questa avventura in Africa, unica condizione imposta dal Gabo, che ne è il proprietario, per la sua partecipazione al viaggio.
Voce che diventa quasi un sussurro quando Floridia ricorda le parole di quella ragazza, «non mi aveva detto niente», che da un giorno all’altro aveva visto sparire il fidanzato. Ma «del partire non si parla – gli hanno spiegato – è un’ossessione spesso coltivata in solitudine». E poi le dita di Issam che si muovono come farfalle sulla chitarra. Nel libro quelle farfalle non le sentirete. Come non sentirete l’indimenticabile colonna sonora di Pinocchio di Luigi Comencini che accompagna la narrazione quando Floridia racconta che, in qualche modo, questo viaggio è stato per lui un ritorno all’infanzia. Perché, in fondo, tutti «continuiamo nel mondo a correre non correre quella corsa verso casa».
Le immagini: la copertina del libro, Pietro Floridia, la presentazione in libreria (Bologna, lunedì 23 gennaio 2012).
Katia Grancara
(LucidaMente, anno VII, n. 74, febbraio 2012)