1.DALL’AFFERMAZIONE DEL METODO CONTRATTUALE ALLA C.D. PRIVATIZZAZIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO
Fino agli inizi degli anni Sessanta il trattamento economico e normativo del pubblico impiego era fissato per legge o per regolamento, in via esclusiva.
Il panorama sindacale era contraddistinto dalla diffusa ed influente presenza dei sindacati “autonomi”, mentre i sindacati aderenti alle grandi confederazioni apparivano da esse scollati e tra sé divisi. Con l’aprirsi degli anni Settanta le Confederazioni cominciarono ad elaborare strategie di intervento unitario nell’area del lavoro pubblico, caratterizzate da un’affermazione progressivamente più esplicita del metodo contrattuale.
Al processo di contrattazione il sindacato andò affidando, con maggior consapevolezza, un duplice obiettivo: rinnovamento dell’organizzazione pubblica mediante l’intervento sulle condizioni di lavoro all’interno di essa, e superamento delle sperequazioni onde eliminare, tra l’altro, le cause più consistenti di divisione tra gli stessi lavoratori e le diverse categorie.
Alla fine degli anni Sessanta prese avvio anche il processo di istituzionalizzazione sul piano legislativo della contrattazione nei diversi settori del pubblico impiego (Stato, sanità, enti locali, ecc.). Questo processo trovò la sua sistemazione nella legge quadro del 29 marzo 1983, che forniva un ampio quadro per l’intera disciplina dei rapporti di lavoro pubblico. L’innovazione più significativa consisteva nell’introduzione di una disciplina della contrattazione collettiva secondo un modello unitario valido per tutto l’impiego pubblico, al posto delle diversificate discipline di settore succedutesi del decennio precedente.
Diversamente dallo Statuto dei lavoratori, che per il settore privato si limita a promuovere l’attività sindacale nei luoghi di lavoro senza regolarla e senza disciplinare la contrattazione collettiva, la legge n. 93 riconosceva e insieme regolava i principali assetti sia dell’azione sindacale sia della contrattazione.
Le ambizioni eteroregolative della legge quadro si rivelarono tuttavia impari rispetto agli obbiettivi perseguiti: omogeneizzazione, perequazione, trasparenza retributiva ed efficienza della pubblica amministrazione. Molteplici i sintomi delle sue strutturali incapacità: la concorrenza sfrenata tra le fonti; il ricorso ad una legislazione dal respiro corto; l’acquisto da parte della contrattazione di una valenza più politica che sindacale; i forti ritardi delle recezioni in decreto; il persistente agnosticismo della giurisprudenza amministrativa.
Dalla ufficiale presa d’atto dell’impossibilità di rivitalizzare in qualche modo il precedente sistema, comincia la storia della c.d. “privatizzazione”, scartata l’ipotesi di una semplice rivisitazione della legge quadro.
Così vide la luce il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, intitolato “razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego”. Il decreto in esame si presenta anzitutto come intervento sulle fonti. Da un lato viene modificato l’atto posto alla base del rapporto di impiego, che è ora il contratto e non più il provvedimento unilaterale di nomina da parte della pubblica amministrazione; dall’altro, al contratto collettivo viene restituito il ruolo di fonte immediata di disciplina del rapporto, con pieno superamento della prospettiva per cui l’accordo sindacale non poteva considerarsi niente di più che una tappa del procedimento di formazione dell’atto amministrativo di recezione.
Il contratto, individuale e collettivo di diritto comune, costituisce dunque il perno attorno al quale ruota la trasformazione dal pubblico al privato (per questo si parla anche di contrattualizzazione).
La trasformazione dell’assetto delle fonti viene poi realizzata tramite altri due significativi “passaggi”: il passaggio di disciplina, che ora è quella contenuta nel codice civile e nelle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa «fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto»; e il passaggio di giurisdizione del giudice amministrativo al giudice ordinario.
Coerentemente, il legislatore prevede (art. 5, comma 2°) che la pubblica amministrazione, nell’attività di gestione del personale, operi con i poteri del privato datore di lavoro, ponendo in essere atti negoziali e non più amministrativi.
La riforma ha trovato il suo completamento in una seconda fase, scaturita da una nuova legge delega (legge n. 59 del 1997, articolo 11, 4° comma) e scandita dei decreti legislativi n. 396 del 1997 e n. 80 del 1998, di modifica dell’originario D.lgs. n. 29/ 1993. Con questi ultimi interventi il legislatore ha ampliato l’area della privatizzazione circoscrivendo il più possibile il limite della specialità così come originariamente contenuto nell’art. 2, 2° comma; coinvolgendo nella riforma anche la dirigenza generale, precedentemente esclusa; e prevedendo che l’organizzazione delle amministrazioni resti sottoposta al diritto pubblico solo limitatamente alle «linee fondamentali di organizzazione degli uffici, alla individuazione e ai modi di conferimento degli uffici di maggiore rilevanza, alle dotazioni organiche complessive”(cd. atti macro-organizzativi).
2.LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NELLA RIFORMA DEL D.LGS. N.29 DEL 1993 (ORA D.LGS. N.165/2001). AMBITI E LIVELLI
L’estensione dell’area assoggettata alla privatizzazione, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, corrisponde a quella in precedenza ricoperta dalla legge quadro n. 93 del 1983.
Sotto il profilo oggettivo, rientrano nell’area di applicazione del decreto legislativo “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e le amministrazioni dello stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria ,artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni e le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale”.
Sotto il profilo soggettivo, vengono escluse dall’area della privatizzazione alcune categorie particolari, che mantengono una disciplina speciale: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle forze di polizia, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, “a partire rispettivamente dalle qualifiche di segretariato di legazione e di vice consigliere di prefettura”. I professori e ricercatori universitari restano disciplinati dalle disposizioni vigenti, in attesa di altra specifica disciplina.
Nella prima fase della riforma erano esclusi come detto anche dirigenti generali od equiparati, poi privatizzati dal D.lgs n. 80 del 1998.
La spinta alla centralizzazione del sistema contrattuale rappresenta il prodotto di un compromesso tra forze che sul piano storico si trovano attualmente a condividere interessi comuni, tra cui l’interesse al controllo del processo rivendicativo: il Governo e le Confederazioni.
Con l’alleggerimento delle regole legali sulla struttura della contrattazione operato dal D.lgs n. 396 del 1997, i livelli contrattuali si riducono oggi sostanzialmente a due: il livello nazionale di comparto e di livello di contrattazione integrativa decentrata. L’esistenza di un terzo livello, il contratto collettivo-quadro, applicabile a tutti o più comparti è interamente rimessa alla volontà delle parti, le quali definiscono ora consensualmente anche la competenza per oggetto.
Fulcro del sistema resta il contratto collettivo nazionale di comparto, stipulato per settori omogenei o affini della pubblica amministrazione. L’importanza riservata a questo livello di contrattazione risulta peraltro in piena corrispondenza con la tradizione del pubblico impiego, e dello stesso settore privato, incentrato sulla contrattazione nazionale di categoria.
La centralità dei contratti di comparto è confermata dalla previsione di ambiti alquanto circoscritti per la contrattazione integrativa decentrata, che si svolge “sulle materie e nei limiti dei contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono”.
Come già nel sistema della legge quadro, gli accordi stipulati a tale livello non possono porsi in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o comportare “oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale o pluriennale di ciascuna amministrazione”, stabilendosi la sanzione della verità per le eventuali clausole difformi.
Di non secondario rilievo sul piano della costruzione del nuovo sistema contrattuale è infine la previsione di un’autonoma separata area di contrattazione per il personale dirigenziale, all’interno di ciascun comparto (art. 40, 2° comma). Una simile soluzione è stata rinvenuta la via migliore per soddisfare le esigenze di chi premeva per il riconoscimento di una contrattazione “propria” e non appiattita in quella comune. Con la riforma operata dal D.lgs n, 396/1997, anche l’individuazione di queste aree è stata rimessa alla contrattazione collettiva.
3.SOGGETTI
La persistente frammentazione e la scarsa trasparenza dei soggetti negoziali hanno sempre costituito la causa più evidente di distorsioni del processo di contrattazione collettiva nel pubblico impiego.
L’elemento di maggior rilievo è l’entrata in scena di un protagonista completamente nuovo, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) “dotata di personalità giuridica di diritto pubblico”. Con essa il legislatore ha sostituito alle varie delegazioni di parte pubblica, un’unica controparte, tecnica e stabile. E ad essa è attribuita la rappresentanza sindacale di tutte le amministrazioni pubbliche, a livello di contrattazione collettiva nazionale.
A livello di contrattazione decentra, invece l’Agenzia può essere richiesta di prestare attività di assistenza (ma non di rappresentanza).
L’istituzione di tale organismo e l’attribuzione allo stesso della rappresentanza obbligatoria di tutte le amministrazioni perseguono il chiaro obbiettivo del superamento della gestione politica delle relazioni di lavoro nel pubblico impiego.
L’Agenzia non è sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio e gli unici controlli sulla sua attività sono effettuati dalla Corte dei Conti, sulla gestione finanziaria. Ma soprattutto essa non opera più, nel processo di contrattazione, quale mero organismo tecnico sottoposto alle direttive impartite dal Governo centrale, cui spettava anche l’autorizzazione alla sottoscrizione dei contratti collettivi. Oggi l’Agenzia si colloca al centro di un sistema più articolato, nel quale il potere di impartire direttive per l’azione contrattuale è stato mutato in potere di indirizzo e trasferito dal Governo ai c.d. Comitati di settore, organi espressi dalle forme associative delle singole amministrazioni e degli enti rispettivamente interessati. Spetta ora a questi ultimi, fornire un parare favorevole all’ipotesi di accordo.
In linea di continuità con il precedente sistema, la legittimazione a negoziare, nel pubblico impiego, spetta esclusivamente al sindacato rappresentativo (diversamente che nel settore privato).
Ai sensi dell’art. 43 del D.lgs 165/2001 sono rappresentative, e dunque ammesse alla stipulazione dei contratti collettivi di comparto, quelle organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto stesso una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la media tra il dato associativo (numero degli iscritti sul totale degli iscritti, misurato sulla base delle deleghe rilasciate per il versamento dei contributi) e dato elettorale (voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu).
Il ruolo delle Confederazioni sindacali viene ridimensionato dalla riforma del 1997. Le Confederazioni sono ammesse alla contrattazione di comparto non più in quanto in sé rappresentative, ma solo se affiliano un sindacato rappresentativo nel comparto o nell’area. Tuttavia, le Confederazioni cui risultano affiliati sindacati rappresentativi in almeno due comparti o aree, hanno la legittimazione esclusiva a trattare con l’Aran sia gli accordi di definizione dei comparti o aree di contrattazione, sia gli accordi regolanti “istituti comuni a tutte le pubbliche amministrazioni o riguardanti più comparti”.
4.OGGETTI
La centralità del ruolo assegnato alla contrattazione collettiva è agevolmente deducibile dal testo riformato dell’art 40 D.lgs n. 165/2001: la contrattazione collettiva ha oggi una competenza generale, potendosi svolgere su “tutte le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali”.
Il trattamento economico continua a essere la materia tipica affidata alla contrattazione collettiva, fin dalla legislazione degli anni Settanta. In proposito, da un lato l’articolo 49 (ora 45) del decreto attribuisce ai contratti collettivi la potestà di disciplinare sia il trattamento economico fondamentale (cioè gli assegni fissi) sia i trattamenti economici accessori «al fine di collegarli direttamente alla produttività individuale e a quella collettiva… ovvero allo svolgimento effettivo di attività particolarmente disagiate, oppure obiettivamente pericolose per l’incolumità personale o dannose per la salute».
D’altro lato, l’art. 2, 3° comma, del D.lgs n. 29 come novellato D.lgs n. 80 del 1998, riconduce a contatto collettivo l’effetto di far cessare l’efficacia di eventuali norme di legge che attribuiscano trattamenti economici non previsti dal precedente contatto collettivo.
5.PROCEDURA ED EFFICACIA
Per consolidata tradizione gli accordi collettivi nel pubblico impiego hanno sempre acquistato efficacia sui rapporti di lavoro non direttamente, ma solo per il tramite di un atto di autorità.
Il D.lgs n. 165/2001 segna ora una netta cesura nei riguardi di quella tradizione. L’uso dell’espressione “contratti collettivi”, al posto della precedente “accordi sindacali”, non lascia dubbi sul mutamento del modello di negoziazione previsto per il pubblico impiego, che non è più quello “compromissorio” fatto proprio dalla legge quadro, ma quello della contrattazione collettiva cosiddetta di diritto comune. D’ora in poi quindi anche nel pubblico impiego il contratto collettivo è destinato ad acquistare efficacia immediata quanto alla disciplina dei rapporti di lavoro compresi nella sua sfera applicativa.
Così l’iter procedurale si alleggerisce, ma non viene del tutto meno.
Quanto al livello nazionale vi è una fase preventiva a quella propriamente contrattuale, costituita dalla deliberazione degli atti di indirizzo da parte dei Comitati di settore delle pubbliche amministrazioni (o del Presidente del Consiglio, per le amministrazioni statali), che vengono trasmessi all’Aran. Sempre preventivamente vengono determinate dal Ministro del tesoro le disponibilità finanziarie da destinarsi complessivamente alla contrattazione.
Una volta individuati livelli e gli agenti contrattuali ai sensi del descritto articolo 43, l’Agenzia entra nella fase della trattativa.
Il raggiungimento di un’intesa (ipotesi di accordo) conduce poi direttamente alla terza fase, che è quella finale del perfezionamento del contratto.
Anteriormente al D.lgs n. 396 del 1997, a questo punto doveva subentrare l’autorizzazione del Governo alla sottoscrizione dell’ipotesi di accordo e questa autorizzazione, a sua volta, era assoggettata al controllo di legittimità della Corte dei Conti. Oggi, invece, non è più richiesta l’autorizzazione del Governo, ma solo il parere favorevole del Comitato di settore (o del Governo nel caso di amministrazioni statali), che deve pervenire entro cinque giorni dalla ricezione del testo. Il parere è vincolante per l’Aran. La differenza tra autorizzazione e parere vincolante risiede nel fatto che ora l’esito della contrattazione non dipende più da un atto posto in essere da un soggetto esterno (Il Governo), portatore di un interesse diverso e potenzialmente confliggente rispetto a quello del soggetto stipulante.
Il giorno successivo a quello dell’acquisizione del parere favorevole da parte del Comitato di settore (o del Presidente del Consiglio), l’Aran trasmette la quantificazione dei costi contrattuali, contenuta in un prospetto allegato, alla Corte dei Conti, la quale ne verifica la compatibilità con gli strumenti di programmazione di bilancio. La Corte dei Conti non controlla dunque più la legittimità dell’atto governativo di autorizzazione, ma solo l’esistenza della copertura finanziaria delle spese previste dal contratto.
Se la delibera della Corte è positiva oppure decorre il termine di 15 giorni dalla ricezione senza che essa si sia pronunciata (silenzio assenso), il presidente dell’Aran sottoscrive il contratto collettivo, previa verifica che sull’ipotesi di accordo confluisca il consenso delle organizzazioni sindacali che rappresentano almeno il 51% come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell’area, ovvero, in mancanza, almeno il 60% del dato elettorale nel medesimo ambito.
In ogni caso, la certificazione positiva può essere accompagnata da raccomandazioni o riserve. Se invece la Corte dei Conti si pronuncia negativamente, l’Aran dovrà tentare l’adeguamento della quantificazione dei costi al fine di ottenere una certificazione positiva; oppure dovrà riaprire le trattative al ribasso con le organizzazioni sindacali.
L’intera procedura di certificazione deve concludersi nel termine di 40 giorni dall’ipotesi di accordo (salvo il caso di riapertura delle trattative). Una volta sottoscritto, il contratto collettivo viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
6.EFFICACIA: AMBITO E TIPO
La riforma del 1997 ha sancito che i contratti collettivi di comparto o di area possono essere stipulati solo se i sindacati consenzienti rappresentino nel loro complesso la maggioranza dei lavoratori interessati, individuata nel 51% come media tra dato associativo e dato elettorale, oppure nel 60% del dato elettorale, con riferimento al compatto o all’area.
Venuta meno la fase di recepimento dell’accordo in decreto, si ripropone inesorabilmente la questione dell’erga omnes. Il contratto pubblico privatizzato non sfugge ai problemi del contratto collettivo di diritto comune, la cui efficacia è formalmente limitata ai datori e lavoratori rappresentati al tavolo delle trattative. È tuttavia chiaro che, trasposta nel pubblico, una simile limitazione finisce con il cozzare contro i principi del “buon andamento” e dell’“imparzialità” dell’amministrazione di cui all’articolo 97 Cost.
La Corte costituzionale (sentenze n. 309 del 1997) ha cercato la soluzione all’interno dello stesso blocco normativo di cui al D.lgs n. 165/ 2001 (articoli 40-50).
L’erga omnes del contratto collettivo risulta assicurato in forza:
- a) della previsione che assegna all’Agenzia la rappresentanza legale di tutte le pubbliche amministrazioni;
- b) della previsione che vincola le pubbliche amministrazioni a garantire ai propri dipendenti “parità di trattamento contrattuali e comunque trattamenti non inferiori a quelli prescritti dai contratti collettivi”
- c) della previsione che le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrative.
Le norme del D.lgs n.165/2001 non contrastano con l’articolo 39, seconda parte, Cost., in quanto il testo legislativo conferisce solo in via indiretta, nei modi appena descritti, l’efficacia generale al contratto collettivo: il vincolo discende infatti dall’obbligo di conformazione ai contratti che grava in capo alla pubblica amministrazione e non dal contratto collettivo stesso.
Il contratto collettivo diventa positivamente applicabile a tutti per il tramite della clausola di rinvio necessariamente contenuta nel contratto individuale che viene sottoscritto al momento della costituzione del rapporto, secondo le previsioni dell’art 2, 3° comma, D.ls n. 165 /2001.
Altro versante problematico è quello che riguarda il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale. Nel privato tale questione trova soluzione nel senso che il contratto collettivo è inderogabile in peius dal contratto individuale e le eventuali disposizioni difformi vengono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo. Per contro il contratto individuale può derogare in melius il contratto collettivo.
Nel settore del lavoro pubblico si assiste ad un capovolgimento: il profilo della inderogabilità in peius non risulta affatto posto in discussione, è tuttora oggetto di dibattito la questione della derogabilità in melius. Due orientamenti si fronteggiano: l’uno sostiene l’inderogabilità assoluta o bilaterale del contratto collettivo nei confronti dell’individuale; l’altro riconosce l’esistenza di spazi d’azione per la contrattazione individuale.
- LA DISCIPLINA
Ad una logica pubblicistica, risultano riconducibili le disposizioni che prevedono la possibilità di “prorogare l’efficacia temporale del contratto, ovvero di sospendere l’esecuzione parziale o totale, in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa”; ovvero la possibilità di fornire l’interpretazione autentica delle eventuali clausole dubbie.
Quanto all’interpretazione autentica dei contratti collettivi, l’art. 49 come novellato dal D.lgs n. 80 del 1998 prevede che, qualora sorgano controversie sull’interpretazione dei contratti collettivi, le parti che li hanno sottoscritti possono incontrarsi per definire consensualmente il significato delle clausole controverse. Il nuovo accordo sostituisce queste ultime non solo per il futuro, ma anche retroattivamente, fin dall’inizio della vigenza del contratto interpretato.
A ridurre il contenzioso è finalizzato anche il particolare procedimento previsto dall’art. 74, secondo il quale il giudice, chiamato a decidere una controversia sulla validità, efficacia o interpretazione di un contratto collettivo, deve sospendere il giudizio per consentire alle parti collettive di stipulare l’accordo interpretativo ai sensi dell’art. 49. Se tale accordo non viene raggiunto, viene imposta al giudice la pronunzia di una sentenza parziale sulla sola questione relativa al contratto collettivo, dichiarata impugnabile in Cassazione, con esclusione del grado di appello.
Alessandro Saggini
(LucidaMente, anno XV, n. 175, luglio 2020)