Alberto Negri narra in “Bazar mediterraneo” (Gog edizioni) le storie e i problemi di alcune città che si affacciano sulle sponde meridionali del «mare tra le terre»
Il mar Mediterraneo è stato tradizionalmente il crogiolo di culture multiformi e il crocevia di scambi commerciali tra i popoli che lo hanno reso un «collante che impronta di sé una civiltà» e una «vera e propria individualità storica» (Romeo Bufalo, L’inquietudine dell’altro, Pellegrini editore). In vari momenti della sua storia, tuttavia, gli equilibri geopolitici del mondo mediterraneo sono stati sconvolti da aspri conflitti militari che si sono riproposti fino ai nostri giorni (Guerre greco–persiane, Guerre puniche, Guerre giudaiche, Invasioni barbariche e arabo-islamiche, Crociate, Guerre ottomano–asburgiche, ecc.).
Nell’ultimo trentennio, in particolare, il «mare tra le terre» è diventato l’arena di scontri armati e guerre civili che hanno interessato soprattutto gli stati delle sue sponde meridionali (Algeria, Libano, Libia, Palestina, Siria, ecc.), provocando ingenti flussi migratori verso le nazioni europee. Delle vicende di questi Paesi si è occupato il saggio Bazar mediterraneo (Gog edizioni, pp. 150, € 15,00) del giornalista Alberto Negri, che racconta la storia di alcune città visitate durante i propri reportage e denuncia al contempo la politica delle grandi potenze mondiali (Cina, Francia, Iran, Israele, Regno unito, Russia, Turchia, Usa), responsabili di aver creato «una sorta di “caos organizzato” che ha lo scopo di tenere in perenne tensione il Mediterraneo e tutto quello che ruota intorno». La prima città descritta nel libro è Algeri, dove il Fronte di liberazione nazionale diede inizio – nel 1954 – alla rivolta antifrancese che portò otto anni dopo all’indipendenza dell’Algeria. Ben presto, però, lo stato maghrebino finì sotto il giogo di una giunta militare e solo alla fine degli anni Ottanta riuscì ad approdare alla democrazia, grazie alle riforme introdotte dal presidente Chadli Bendjedid.
Nel 1991, tuttavia, un colpo di stato militare annullò le elezioni vinte dal Fronte islamico di salvezza, scatenando una feroce guerra civile tra gli integralisti islamici e l’Fln, che provocò oltre 200 mila morti. Il reporter italiano rivela che, durante questo cruento conflitto, il governo algerino attuò un’atroce «strategia della tensione»: i fondamentalisti, infatti, «venivano infiltrati e manipolati dalle autorità di sicurezza per creare una spirale di odio che giustificasse la permanenza al potere dei generali». Dopo le proteste popolari del 2019, il presidente Abdelaziz Bouteflika si è dimesso, gettando così l’Algeria in una fase di instabilità politica che dura ancora.
Altre due significative città dove Negri ha lavorato come inviato speciale sono state Bengasi e Tripoli, storiche capitali della Libia. L’autore ricostruisce nel saggio le travagliate vicende dell’ex colonia italiana, partendo dalla Guerra italo-turca (1911-12) che permise all’Italia di conquistare la Cirenaica e la Tripolitania (e, nel 1914, anche il Fezzan). La resistenza all’occupazione straniera si organizzò attorno al capo senussita Omar al-Mukthar che tra il 1914 e il 1921 liberò gran parte dei territori libici. Nel 1922, tuttavia, cominciò la riconquista italiana che fu costellata da «stragi, l’uso dei gas contro le popolazioni, processi farsa, impiccagioni, e un’estesa rete di campi di concentramento in Cirenaica dove morirono migliaia di libici» (vedi Un mito assurdo che dura ancora). Nel 1951 – grazie al sostegno britannico – Idris I divenne sovrano del Regno di Libia, ma nel 1969 un colpo di stato portò al potere il capitano Mu’ammar Gheddafi, che governò con metodi autoritari fino al 2011, quando fu rovesciato e ucciso dai ribelli cirenaici supportati dall’aviazione della Nato.
Negri definisce Gheddafi come uno «tra i peggiori dittatori della storia mediterranea», ma allo stesso tempo critica la partecipazione italiana ai raid aerei contro il rais libico, perché il Belpaese – tradendo il principale alleato del mondo arabo – «ha subito la più grossa sconfitta dalla Seconda guerra mondiale e la sua maggiore perdita di credibilità e prestigio nel Mediterraneo». Oggi la Libia si trova in grave difficoltà, poiché è divisa tra la Cirenaica (sotto l’influenza russo-egiziana) e la Tripolitania (sotto la protezione turca) e non riesce a darsi un governo unitario (vedi Libia, Paese di nuovo spaccato: Bashagha eletto premier da Tobruk, ma Dbeibah non molla la carica. Attentato al leader di Tripoli, in www.ilfattoquotidiano.it).
Le altre metropoli mediterranee visitate dal reporter italiano sono state Alessandria d’Egitto, Beirut, Istanbul, Salonicco e Tangeri. Ci ha particolarmente colpito la storia di Salonicco, la città tradizionalmente più cosmopolita della Grecia, che – dopo essere caduta in mano ai turchi nel 1430 – divenne tra il XV e il XVI secolo il centro di accoglienza di migliaia di ebrei sefarditi (espulsi dalla penisola iberica) ed ebrei ashkenaziti (provenienti dall’Europa centrale), tanto da essere soprannominata la «Gerusalemme dei Balcani». Nel 1943, tuttavia, la comunità giudaica fu dispersa dai tedeschi: 54 mila ebrei tessalonicesi, infatti, furono deportati nei campi di sterminio nazisti e 37 mila di loro perirono a Birkenau. A Salonicco, inoltre, sorse il movimento dei Giovani turchi, che nel luglio 1908 costrinse il sultano Abdul Hamid II a concedere la costituzione (e in seguito lo depose), ma soprattutto nacquero Mustafa Kemal Atatürk – fondatore della Turchia moderna – e il noto poeta Nâzım Hikmet, che non a caso si formarono nell’ambiente tessalonicese «liberale ed effervescente».
Il «caos organizzato» che da anni caratterizza il mar Mediterraneo è emblematicamente rappresentato dalla società libanese, divisa in una molteplicità di etnie (cattolici, drusi, maroniti, ortodossi, protestanti, sciiti, sunniti), che alternano periodi di convivenza pacifica a fasi di cruenta guerra. Il Libano – un tempo definito «la Svizzera del Medioriente» – il 4 agosto 2020 è stato sconvolto dall’esplosione di un magazzino pieno di nitrato d’ammonio che ha distrutto il porto di Beirut e una parte della città, provocando 200 morti e settemila feriti. La capitale libanese appare oggi povera e inquinata, mentre il Libano è un «Paese precipitato nel marasma di una crisi profonda», proprio come gran parte del mondo mediterraneo.
L’ultimo sguardo di Negri si posa su Istanbul, in particolare su piazza Taksim, centro nel 2013 della «più grande ondata di protesta contro il Partito della giustizia e dello sviluppo che vince da vent’anni tutte le elezioni». Recep Tayyip Erdoğan, leader di questo partito, è diventato primo ministro nel 2003 e ha consolidato il proprio potere dopo l’attacco statunitense all’Iraq che ha aperto «il vaso di Pandora della destabilizzazione mediorientale», diventando infine presidente della Turchia nel 2014. Da sempre vicino ai Fratelli musulmani, ha sfruttato il fallito colpo di stato del 2016 per instaurare «un sistema di repressione che ha nei fatti distrutto lo stato di diritto e gli spazi di libertà di chi si oppone al regime». Il «nuovo sultano» sogna da tempo la ricostruzione dell’Impero ottomano e nel 2014 non ha esitato a far entrare in Turchia – col beneplacito degli Usa – «migliaia di jihadisti da tutto il mondo arabo e musulmano per spostarli alla frontiera turca e farli passare in Siria», favorendo la nascita dell’effimero califfato dell’Isis (vedi Una tetra bandiera sventola in Medioriente). L’espansionismo turco è stato frenato dalla reazione di kurdi, iraniani, russi e siriani, ma nel 2020 il governo di Ankara ha mandato migliaia di mercenari in Tripolitania, rendendo ulteriormente instabili le sponde meridionali del Mediterraneo. Inoltre Erdoğan ricatta da anni l’Unione europea, minacciando di spedire in Europa i migranti stipati a milioni nei campi profughi della Turchia (vedi Pierre Haski, Il cinico ricatto di Erdoğan all’Europa, in www.internazionale.it).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno XVII, n. 195, marzo 2022)