La decadenza, tutt’altro che casuale, ma eterodiretta dall’esterno, di quello che una volta era definito, per antonomasia, il Belpaese, ed era tra i primi al mondo come ricchezza diffusa, indice di felicità, cultura, turismo, cinema, sport e spettacolo
Toh, si torna a parlare di spread… Toh, si torna a chiedere di togliere di mezzo un governo eletto dopo libere lezioni per imporre un nuovo governo di famigerati “tecnici” pronti a lockdown e macelleria sociale… La Nazione interessata? Beh, è l’Italia!
Italia must die
Chissà se gli studenti – almeno quelli dei licei! – capiscono ancora la celebre frase Carthago delenda est! Si può tradurre con “Cartagine deve essere distrutta”; ed era ossessivamente pronunciata da Catone il Censore (234-149 a.C.) al termine di ogni suo discorso al Senato di Roma repubblicana.
Essa passa alla storia come significativa di un odio implacabile e dell’individuazione di uno Stato nemico mortale di un altro, per cui l’unica soluzione è il suo dissolvimento. Forse, anglofoni come sono stati costretti a diventare, i giovani italiani d’oggi capirebbero meglio la frase Italia must die (“L’Italia deve morire”).
E, infatti, la messa in liquidazione del nostro Paese è stata da tempo decretata dalla grande finanza anglosassone e dai poteri sovranazionali. Tra le “azioni” più decisive, la fine della lira e il passaggio all’euro, la consegna del deficit pubblico agli speculatori internazionali, la messa in liquidazione e svendita delle nostre migliori aziende e know how, il capestro dei trattati europei, la cessazione di ogni residua sovranità e l’attacco a cultura e tradizione da parte del dirompente e violento movimento woke.
Basterebbe riguardarsi qualche immagine dell’Italia degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta, qualche documentario o film dell’epoca, d’arte o popolare, per accorgersi del drammatico divario col Paese odierno. L’Italia aveva appena subito una disastrosa guerra mondiale, coi bombardamenti indiscriminati dei “liberatori” e le deportazioni e le stragi naziste, accompagnata da una per definizione fratricida e spietata guerra civile. Eppure, nei volti delle persone comuni, delle famiglie povere ma prolifiche e unite, persino nei mutilati, si avverte la vitalità, l’energia, la speranza, l’ottimismo di un intero popolo, compatto al di là delle divisioni politiche e geografiche.
Anche prima del Novecento, ma pure sotto il regime fascista e nel Secondo Dopoguerra, l’Italia era nota come il «Belpaese». Un’espressione risalente addirittura a Dante Alighieri (Inf., XXXIII, v. 80) e a Francesco Petrarca (Canzoniere, CXLVI, v. 13). Quindi ripresa nel 1876 dall’abate Antonino Stoppani nel suo omonimo libro e, infine, divenuta di uso (e abuso) comune.
La felicità di un popolo
C’era voglia di vivere, vivere, vivere (altro che la discutibile omelia dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini al funerale di Silvio Berlusconi, dipinto come un vitalista dannunziano…).
Anche con un solo modesto stipendio e tre-quattro figli, le famiglie italiane potevano permettersi un mese di vacanza al mare e ristoranti nei quali abbuffarsi tutti almeno una volta alla settimana, senza scontrini-sorpresa. Le case erano spaziose, con stanzoni ampi e alti (non miniappartamenti-tuguri dagli affitti altissimi) e grandi cortili interni per far giocare i bimbi in sicurezza. I centri storici erano abitati dalla gente comune, piccoli commercianti, artigiani, non espropriati come oggi per essere sostituiti da banche, uffici, negozi “etnici”.
Gli immigrati, gli “stranieri”, erano i meridionali che si trasferivano in massa nelle città del Nord sedi delle fabbriche ed erano trattati certo peggio dei migranti odierni (ma nessuno urlava al “razzismo”). Gli stranieri che arrivavano in Italia erano quelli che avevano eletto la penisola come seconda patria: sia quelli di alto livello sociale, angloamericani, innamorati di Roma, Firenze, Venezia; sia quelli più popolari, teutonici, che si riversavano sulla riviera romagnola o veneta.
Persino i più europeisti
Milano era la locomotiva dell’economia italiana (e Catania era la “Milano del Sud”). Nella produzione dei film eravamo, grazie a Cinecittà, alla pari con Hollywood, primeggiando nei film di alto valore artistico, ma invadendo il mondo con le redditizie produzioni minori, dagli spaghetti western alle commediole scollacciate.
Fino agli anni Ottanta la nostra serie A era il primo campionato di calcio al mondo come livello tecnico, con i migliori giocatori stranieri che facevano a gara per accasarsi presso i nostri club (con stipendi modesti rispetto a quelli odierni).
Eravamo abbastanza prolifici, il che era causa ed effetto della realtà di essere tra i popoli più felici al mondo. E, infatti, si rideva: i film e la satira erano liberamente irridenti, dal sublime Totò e dai grandi film della commedia all’italiana (Gassman-Manfredi-Sordi-Tognazzi, impegnati nella satira sociale, alle pernacchie di Lino Banfi e Alvaro Vitali (altro che politically correct!). Cinecittà produceva pellicole quasi quanto Hollywood (gli spaghetti-western spopolavano, ma anche i nostri grandi registi creavano capolavori assoluti). Persino la tv di stato, peraltro censoria e bigotta, oltre che trasmettere programmi di alto livello, era leggera e divertente, ma di buon gusto.
Per di più, pensando che i mali italiani derivassero dall’endemica corruzione dei nostri politici, la popolazione era la più filoeuropeista del Vecchio Continente; non sapeva che si stava consegnando nelle mani dei propri carnefici!
Forse non ci sta restando neppure la migliore gastronomia al mondo, in particolare quella mediterranea, attaccata com’è dalle trovate pseudosalutiste dell’Unione europea, e da quelle ecologiste che vogliono imporre cavallette, insetti vari, vermi e bistecche sintetiche come cibo obbligatorio.
Povertà, degrado, abbrutimento, tristezza
Com’è potuto accadere che oggi l’Italia sia un Paese allo sbando, in caduta libera, tenuto al guinzaglio da Usa, Nato, Unione europea, banche centrali, ecc. ecc.?
Non si tratta di astratti dialoghi sui massimi sistemi. Guardiamoci attorno. Prevale il degrado, l’abbrutimento, la tristezza. Povertà diffusa, lavoro sottopagato e precario, case occupate, muri di ogni palazzo ricoperti da scritte vandaliche, bottiglie di birra (anche rotte) lasciate dappertutto, sui marciapiedi, ma pure per strada, masse di stranieri sbandati che girovagano, movide che non fanno dormire chi deve andare a lavorare la mattina dopo, stupri e sessualità sregolata, droga libera, violenza, aggressività, maleducazione, anche di giovanissimi, persino nelle più semplici relazioni umane.
E nessuno fa niente. Nessuno intravede una via d’uscita, una luce in fondo al tunnel. Il che si traduce in un generale senso d’impotenza, depressione collettiva, infelicità. È quello che accade quando a un popolo si sottrae la propria anima; è successo così ai pellerossa d’America, agli aborigeni australiani e a tutti i popoli sottomessi.
Il sintomo più evidente di un popolo che sta morendo è la sua sterilità, che neanche i “progressisti” possono negare (leggi Istat: “Natalità ai minimi storici. Per la prima volta in 160 anni meno di 400mila bimbi nati”), ma che accusano di razzismo chi parla di oggettiva “sostituzione etnica”.
Insomma, l’Italia e gli italiani stanno morendo.
Com’è potuto accadere tutto questo?
Per fornire una benché sommaria e parziale spiegazione della tragedia italiana, riprendiamo qualche brano tratto dalla nostra recensione a Lamberto Rimondini, L’altra storia d’Italia. 1802-1947 (Prefazione di Paolo Borgognone, Macro-Arianna Editrice, 2023, pp. 544, € 20,00).
Scrive Rimondini: «Dal 1975 la Banca d’Italia si è impegnata ad acquistare tutti i titoli non collocati presso gli investitori privati. Tale sistema garantisce il finanziamento della spesa pubblica e la creazione della base monetaria, nonché la crescita dell’economia reale. […] Fino al 1981 […] l’Italia ha la quota di spesa pubblica in rapporto al Pil più bassa tra gli Stati europei». Ma «il 12 febbraio 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrive al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi una lettera che sancisce il “divorzio” tra le due istituzioni». Le motivazioni sarebbero l’inflazione post shock petrolifero del 1973 e post ingresso del nostro Paese nello Sme (Sistema monetario europeo).
La scelta si rivela disastrosa: «l’Italia deve collocare i titoli del debito pubblico sul mercato privato a tassi d’interesse sensibilmente più alti», da cui «una vera e propria esplosione della spesa per interessi passivi». Essi passano dal 5% circa di fine anni Sessanta al 25% nel 1995, con un tasso di crescita dal 1975 al 1995 del 4.000%. Sicché «la crescita del deficit annuo rispetto al Pil, derivante dalla spesa per interessi passivi, porta in pochi anni il rapporto debito/Pil dal 56,86% del 1980 al 94,65% del 1990, fino al 105,20% del 1992». Oggi è al 143,5%: praticamente fuori controllo. Tale esplosione del debito pubblico, unita «all’impossibilità di svalutare la moneta “grazie” ai vincoli di Maastricht», è per noi letale.
La speranza è l’ultima a morire… Bisognerà vedere se moriremo prima noi o lei…
Le immagini: a uso gratuito da Pexels (autori: Pixabay; Toni Canaj; Jason Renfrow Photography).
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVIII, n. 214, ottobre 2023)
Come siamo caduti in malora.