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Home GIURISPRUDENZA-DIRITTO DEL LAVORO-AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE (a cura di Alessandro Saggini)

La repressione della condotta antisindacale

Alessandro Saggini by Alessandro Saggini
1 Aprile 2020
in ATTACCO FRONTALE, GIURISPRUDENZA-DIRITTO DEL LAVORO-AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE (a cura di Alessandro Saggini), TEMATICHE CIVILI
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I diritti sindacali
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1.L’IMPORTANZA DELL’ART. 28

La protezione legislativa della libertà, dell’attività sindacale in azienda e del diritto di sciopero si realizza nel modo più ampio, e con la massima effettività, nell’art.28 St.lav.,vera norma di chiusura della legge, che prevede uno speciale procedimento giurisdizionale repressivo della condotta antisindacale del datore di lavoro.

Nel corso del 1990 il legislatore ha prefigurato due fattispecie tipiche di comportamenti antisindacali: l’una relativa alla violazione delle norme attinenti alla parte cosiddetta obbligatoria del contratto collettivo, l’altra relativa al mancato rispetto degli obblighi procedurali in caso di trasferimento d’azienda.

2.LA FATTISPECIE E IL SOGGETTO ATTIVO

La condotta antisindacale è identificata dall’art.28 nei “comportamenti del datore di lavoro diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero”. L’unico fattore definito in modo tipico dalla norma è il soggetto attivo della condotta vietata che è individuato nel datore di lavoro a prescindere dal fatto che sia o non sia imprenditore, privato o pubblico e indipendentemente dal numero di lavoratori alle sue dipendenze.

La condotta antisindacale è rilevante ex art.28 anche se posta in essere non personalmente dal datore, ma dai soggetti che secondo l’organizzazione dell’azienda svolgono attività ad esso imputabile, esercitando una frazione più o meno ampia del potere imprenditoriale.

3.IL COMPORTAMENTO

Il comportamento illegittimo non è descritto dall’art.28 in base alle sue caratteristiche strumentali, ma è individuato solo per l’idoneità a ledere i beni protetti (libertà, attività sindacale, diritto di sciopero), quindi è strutturalmente aperto. Questa tecnica di individuazione della fattispecie è motivata dalla consapevolezza che i beni protetti possono essere lesi nella pratica da comportamenti diversi, non tipizzabili priori.

Il termine comportamento, per la sua genericità, è comprensivo sia di atti giuridici (es. sanzione disciplinare, licenziamento, trasferimento) sia di meri comportamenti materiali (es. intimidazioni, minacce, indagini antisindacali). Non vi è ragione di escludere neppure i comportamenti omissivi del datore.

Il legislatore del 1990 ha modificato parzialmente l’impostazione prescelta dallo Statuto dei lavoratori prevedendo espressamente due ipotesi specifiche di comportamento antisindacale.

La norma dell’art. 7 della L. n. 146/1990 ritiene applicabile l’art. 28 dello Statuto all’inadempimento da parte di un datore di lavoro di clausole collettive in tema di diritti ed attività proprie del sindacato (c.d clausole obbligatorie), solo per quel datore di lavoro (pubblico o privato che sia) ricadente nell’ambito della legge medesima, cioè un ente gestore di un servizio pubblico essenziale.

La seconda ipotesi qualifica come condotta antisindacale il mancato rispetto da parte del cedente o del cessionario degli obblighi procedurali (comunicazione, informazione, esame congiunto) previsti nei confronti delle rispettive RSU o RSA costituite nelle unità produttive interessate o ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento d’azienda.

4.I BENI PROTETTI

L’elemento centrale della fattispecie è la lesione della “libertà, attività sindacale e diritto di sciopero”.

All’inizio furono avanzate interpretazioni restrittive, rifiutate sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza poiché si riteneva che la norma tutelerebbe solo i diritti collettivi esplicitamente riconosciuti dalla Legge 300,a causa proprio dell’ampiezza della formula normativa che si riferisce ai diritti sindacali elementari nella loro forma più estesa.

Di conseguenza può aversi condotta antisindacale non solo quando sono violati diritti sindacali formalmente riconosciuti dallo Statuto (es. impedimento di assemblea, non concessione di permessi), ma anche quando si colpiscono uno o più lavoratori per l’esercizio dei diritti di libertà sindacale e di sciopero di cui sono titolari: licenziamenti, trasferimenti o minacce di sanzioni disciplinari motivati da ragioni antisindacali.

Il fatto che quest’ultimo tipo di atti sia considerato anche da altre norme non esclude l’uso dell’art. 28, perché diversi sono i presupposti di utilizzo e gli interessi tutelati. Ad es., nel caso di licenziamento antisindacale, l’art. 18 permette al lavoratore di chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro facendo valere l’illeceità dell’atto in nome del proprio interesse a non essere leso per l’esercizio delle libertà istituzionali, mentre l’art. 28 legittima il sindacato a chiedere la rimozione degli effetti del comportamento antisindacale, e quindi analogamente la reintegrazione nel posto del licenziato, in nome del distinto interesse del sindacato stesso a che non sia coartata la libertà sindacale in azienda.

5.I LIMITI DELL’ANTISINDACALITÀ. ANTISINDACALITÀ GIURIDICA E DI FATTO

Il problema più delicato è di individuare i limiti entro cui l’esercizio dei diritti indicati dall’art 28 è protetto da comportamenti ostativi del datore di lavoro, o, altrimenti detto, il confine tra comportamenti di questo che rientrano nella normale logica del conflitto di interessi tra datore e lavoratore e comportamenti giuridicamente lesivi dei beni indicati dalla norma.

In genere, saranno illeciti i comportamenti del datore ostativi di attività sindacale e di scioperi svolti con modalità riconosciute dall’ordinamento, o di comportamenti che si muovono nella sfera generica della libertà sindacale, e come tali protetti (ad es. impedimenti di attività di propaganda ed a proselitismo sindacale non motivati da univoche esigenze di organizzazione aziendale). Saranno invece esenti da censura i comportamenti motivati da reazioni a comportamenti illeciti o non protetti dei lavoratori (ad es. sanzioni contro partecipanti a forme di lotta illegittime).

a) Antisindacalità ed interesse dell’impresa

Nascono delle controversie sui comportamenti del datore attinenti alla gestione dell’impresa, ma sembra doversi escludere che basti qualsiasi interesse aziendale a giustificare il comportamento del datore nonché a escludere l’applicabilità dell’art.28. Perché sia così devono esistere – e il datore deve darne prova – esigenze tali da giustificare in modo conclusivo e quindi da escludere che esso sia diretto a contrastare l’esercizio dei diritti protetti dalla norma: ad es. motivi economici adeguati a fondare la riduzione dell’orario di lavoro, trasferimenti, licenziamenti.

b) Reazioni allo sciopero

L’art.28 protegge il diritto di sciopero da ogni comportamento ostativo, ma senza entrare nel merito dei limiti del suo esercizio. La protezione della norma in principio è offerta qualora lo sciopero sia attuato nell’ambito dei limiti del diritto elaborati dalla giurisprudenza e individuati dal legislatore, sia quanto alle modalità, sia quanto agli obbiettivi, e negata quando vada oltre tali limiti.

c) Comportamenti nelle trattative

In generale si ritiene che il rifiuto di trattare o il comportamento ostruzionistico non costituisca in sé condotta antisindacale, perché non esiste nel nostro ordinamento un obbligo legale di trattare in capo all’imprenditore.

Secondo la nostra giurisprudenza la condotta del datore sarebbe reprimibile ex art.28, solo qualora un obbligo a trattare si desumesse da specifiche disposizioni di legge, o anche di contratto collettivo.

Un problema in parte simile si è posto nei casi di rifiuto del datore di lavoro di trattare con alcune sigle sindacali soltanto (c.d accordi separati). La giurisprudenza ha talora distinto le ipotesi di mero rifiuto di trattare dai casi in cui il datore di lavoro tratti direttamente con il personale o con rappresentanze non sindacali. Queste ultime sono state ritenute dalla Cassazione illecite ex art 28, a differenza delle prime.

d) Violazione dei diritti sindacali contrattuali

Un ulteriore ordine di problemi si presenta nelle ipotesi in cui il datore violi diritti riconosciuti al sindacato non dalla legge, ma dalla stessa contrattazione collettiva: ad es., diritti di informazione conseguenti alla c.d prima parte dei contratti; diritto del sindacato a essere consultato nel caso di certe procedure (ad es. introduzione del lavoro notturno).

Secondo una tesi dottrinale l’art. 28 non può riferirsi a tali ipotesi, perché la sua applicazione comporterebbe la sanzionabilità anche penale, a solo carico del datore, dell’inadempimento del diritto sindacale convenzionale. Si è obbiettato però che questa tesi restrittiva non si giustifica alla stregua dell’ampia dizione e della ratio dell’art 28. La norma protegge l’esercizio dei diritti sindacali e non c’è ragione di escludere quelli che entrano a far parte dell’area protetta dell’attività sindacale attraverso il tramite dell’autonomia collettiva che è riconosciuta dall’art 39 della Costituzione.

È opportuno trarre conclusioni circa la natura dell’art 28 quale norma primaria (di condotta) o secondaria (solo sanzionatoria) e circa la sua differenza con la legislazione per clausole generali. In realtà l’art 28 non aggiunge alcunché ai diritti sindacali esistenti. La sua portata innovativa rispetto alla precedente disciplina sostanziale è peraltro indubbia, per la diversa effettività che ad essa ha attribuito, con la previsione di una particolare azione e procedura attivata dal sindacato. A differenza delle clausole generali, che rinviano solo a criteri di valutazione esterni all’ordinamento e desunti genericamente dall’ambiente sociale (correttezza, lealtà, buon costume ecc.) la fattispecie individuata dall’art. 28, pur essendo strutturalmente indeterminata, è definita con riferimento alla tutela di diritti riconosciuti dall’ordinamento, anche se il contenuto di alcuni di questi è esposto a variazioni storiche e ambientali.

6.L’ IRRILEVANZA DI ELEMENTI SOGGETTIVI

L’art.28 dispone che i comportamenti antisindacali del datore di lavoro devono essere “diretti a impedire o limitare” l’esercizio dei diritti sindacali protetti. Si deve quindi ritenere che sia sufficiente accertare la obiettiva portata lesiva del comportamento, cioè la sua idoneità a ostacolare l’esercizio dei diritti, a prescindere dall’esistenza di dolo o colpa. Questa è stata anche la posizione assunta dalle Sezioni Unite della Cassazione.

Parte della giurisprudenza assume tuttavia una posizione più articolata, considerando l’intenzionalità del comportamento del datore di lavoro irrilevante solo nel caso di comportamento contrastante con norma imperativa; l’animus antisindacale acquisirebbe rilevanza quando la condotta presenti i caratteri dell’“abuso di diritto”, giacché in questo caso l’esercizio del diritto da parte del titolare si esplicita attraverso l’uso abnorme delle relative facoltà ed è indirizzato a fine diverso da quello tutelato dall’ordinamento giuridico.

7.LEGITTIMAZIONE AD AGIRE E INTERESSI PROTETTI DALL’ART.28

a) I soggetti legittimati

Un’innovazione fondamentale dell’art.28 è il riconoscimento della legittimazione a un soggetto collettivo, precisamente agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, che vi abbiano interesse”. Essa esclude sicuramente la legittimazione sia dei singoli lavoratori sia di forme di autotutela collettive non organizzate su base nazionale.

La specificazione di quali siano gli organismi locali delle associazioni nazionali sembra doversi desumere dagli statuti interni di queste. In principio si tratterà degli organi territoriali di categoria e non di quelli orizzontali; inoltre si dovrà decidere quale sia il livello sindacale legittimato.

b) Questioni di costituzionalità

Il limite della legittimazione attiva agli organismi locali dei sindacati nazionali ha sollevato problemi di legittimità costituzionale tra i più dibattuti. Le obiezioni si sono fondate in vario modo sugli articoli 24; 2; 3 e 39 Cost.

La Corte Costituzionale ha respinto tutte queste obiezioni sostenendo che la scelta del legislatore non limita in alcun modo i diritti individuali e collettivi di libertà sindacale, ma attribuisce a soggetti qualificati uno strumento di azione giudiziaria di particolare efficacia. La scelta selettiva (degli organismi e del livello di rappresentatività) è ragionevole, perché privilegia, al pari dell’art 19, “organizzazioni responsabili che abbiano un’effettiva rappresentatività e possono operare consapevolmente delle scelte concrete valutando l’opportunità di ricorrere alla speciale procedura.

8.IL PROCEDIMENTO

Il procedimento previsto dall’art.28 ha carattere d’urgenza, fondato su un’istruttoria minima (audizione delle parti) da concludersi in tempi brevi, anche se il termine dei due giorni è ordinatorio e di fatto è largamente superato. L’ azione si propone con ricorso al Tribunale del luogo ove è posto in essere il comportamento denunciato. L’ordine del giudice (decreto motivato) che sanziona l’eventuale condotta antisindacale, è immediatamente esecutivo, e comporta la “cessazione del comportamento illegittimo” lesivo dei beni protetti e “rimozione degli effetti” lesivi già realizzati, ripristinando il libero godimento degli stessi beni.

Contro il decreto immediatamente esecutivo che decide il ricorso, accogliendolo o rigettandolo, è ammessa, entro 15 giorni dalla sua comunicazione alle parti, l’opposizione avanti al tribunale che ha emanato il provvedimento impugnato il quale provvede con sentenza, anch’essa immediatamente esecutiva. Se non opposto, il decreto acquista l’incontrovertibilità del giudicato. La mera proposizione dell’opposizione non sospende l’efficacia esecutiva del decreto. La sentenza che decide sull’opposizione è appellabile avanti la Corte d’Appello, sempre secondo il rito del lavoro.

9.LE SANZIONI

La sanzione penale posta a carico del datore di lavoro, per l’inosservanza dell’ordine del giudice, ai sensi dell’art.650 c.p (arresto fino a 3 mesi o ammenda fino a 206 euro) è un altro fattore decisivo di effettività della norma, una forma di coazione indiretta. La sanzione si può infliggere solo se il giudice penale, riesaminando se il comportamento sia davvero antisindacale, lo condanna sulla base del provvedimento del giudice civile.

Va altresì ricordato che l’art 7, 7°comma della legge 23 dicembre 2000, n. 388, dispone a carico del datore condannato per condotta antisindacale la revoca delle agevolazioni fiscali concesse per incentivare l’occupazione.

Alessandro Saggini

(LucidaMente, anno XV, n. 172, aprile 2020)

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Tags: condotta antisindacalecostituzionediritto del lavorolavoratorilavorolibertàsindacati
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