Costantemente in bilico tra narrazione diaristica e narrazione romanzesca, le opere dell’autrice francese testimoniano la volontà di travalicare la propria esperienza personale per farsi portatrice della memoria collettiva
È all’articolo Littérature et politique, pubblicato nel 1989, che dobbiamo una delle riflessioni più nitide e precise sul significato che Annie Ernaux attribuisce alla scrittura. Nel testo l’autrice francese afferma che, al di là delle forme e dei significati che questa arte può assumere, essa «engage» inevitabilmente poiché veicola, seppure in modo complesso, «una visione che approva l’ordine sociale o, al contrario, lo denuncia» («une vision consentant ou non à l’ordre social»): pertanto, la storia letteraria non potrà mai essere apolitica («Il n’y a pas d’apolitisme au regard de l’histoire littéraire», p. 550).
Un’analisi della sua produzione scritta, che abbraccia un’intera esistenza (dagli anni Settanta sino ai nostri giorni), non sarebbe possibile, quindi, senza tenere conto della volontà di confrontarsi costantemente con il proprio contesto sociale, andando al di là delle evidenze e dei tabù. Poco importa, allora, che gli argomenti affrontati siano di natura pubblica, politica o l’espressione della propria intimità e del proprio vissuto. Ciò che conta davvero è la capacità di abbracciare il lettore, di renderlo partecipe raccontando la vita, il proprio tempo e la propria epoca, quella che concerne tutti i viventi, come lei stessa ha affermato in un’intervista: «Non riesco a concepire l’idea di scrivere dei libri che non mettano in discussione ciò che viviamo, che non pongano degli interrogativi, delle osservazioni sulla realtà così come mi è dato vederla, ascoltarla, viverla o ricordarla. Una letteratura che mi coinvolga e che coinvolga il lettore» (Entretien avec Marie-Madeleine Million-Lajoinie, 2004). Gli esempi da citare sono numerosi, a partire da Gli armadi vuoti (1974).
Il romanzo, che vede al centro della storia l’aborto clandestino della protagonista, alter ego della Ernaux, viene pubblicato prima dell’approvazione della Legge Veil. Nel 2001, ne L’evento, l’esperienza drammatica diventa nuovamente focale e lascia emergere il sostegno di quella libertà di scelta che continuava a essere contestata e male accettata, ma che si era resa necessaria per mettere fine a una verità brutale: l’invisibilità delle donne. Qualche tempo prima, ne L’onta (1999), i ricordi personali avevano lasciato intravedere sullo sfondo le tragedie che si consumavano negli stessi anni in cui era ambientata la trama: il genocidio in Ruanda e la guerra di Sarajevo.
Ne Gli anni, edito in Italia nel 2005 da L’orma editore, la casa editrice che dal 2014 pubblica i suoi racconti, l’io autobiografico si allarga, invece, ai sogni di un’intera generazione, quella del secondo dopoguerra, che ha vissuto i profondi cambiamenti sfociati nella cultura contemporanea. Ecco, allora, che scrivere significa «scendere nella realtà sociale», come lei stessa dirà, «la realtà delle donne, della Storia, di quanto abbiamo vissuto in modo collettivo ma attraverso ciò che ho vissuto personalmente» (Le vrai lieu. Entretiens avec Michelle Porte, p. 83). La volontà di essere utile agli altri tramite la propria scrittura spiega oltretutto le prese di posizione affidate non solo alla pratica narrativa ma anche agli articoli di protesta su questioni che chiamano in causa spaccati di attualità. Tra questi merita certamente di essere ricordato l’articolo Ne laissons pas la droite s’approprier ce jour de mémoire et de combat, pubblicato nell’aprile 2012 sulle pagine de Le Monde, in cui la Ernaux manifestava collera e stupore dinanzi al gesto del presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy di strumentalizzare la festa del 1° maggio, definendo ciò una ferita inferta alla memoria di quanti hanno lottato e perso la vita per il riconoscimento dei propri diritti.
Più nota al vasto pubblico, e ancora più incisiva, è la critica mossa cinque mesi dopo al connazionale Richard Millet, autore dell’Elogio letterario di Anders Breivik, che suscitò grande scalpore e gli costò l’allontanamento da Gallimard per aver definito il mostro norvegese, colpevole dell’uccisione di 77 persone, il prodotto della destoricizzazione culturale dell’Europa. In quell’occasione la Ernaux, nell’articolo Le pamphlet fasciste de Richard Millet déshonore la littérature, consegnato ancora una volta alle pagine del celebre quotidiano nazionale, non esitò a definire il saggio un’apologia della violenza per aver messo «la penna al servizio del fucile da assalto dell’assassino». Sono, dunque, il legame inscindibile tra autobiografia e tematiche sociali forti e la capacità di elevare i dati personali a messaggio universale, di dare vita a un’opera che si nutre del mondo in cui nasce e si sviluppa («une oeuvre séculière», come l’ha definita il critico letterario Dominique Viart), alla base delle motivazioni del premio Nobel per la Letteratura 2022, che sottolineano «il coraggio e l’acutezza clinica con cui [la scrittrice] svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale».
Marilena Genovese
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 204, dicembre 2022)