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Home IL PIACERE DELLA CULTURA

Le riflessioni di Giovanni Nebuloni sulla scrittura conoscitiva 2

In questa seconda parte dell’intervista al fondatore della corrente letteraria “Fact-Finding Writing”, si parla di filosofia del linguaggio, di religione e di stelle, ma anche di quando e come è nato il movimento, dal nome ai concetti

Maria Daniela Zavaroni by Maria Daniela Zavaroni
3 Marzo 2015
in IL PIACERE DELLA CULTURA, LIBRI, SCIENZA-AMBIENTE-ECOLOGIA-CAMBIAMENTI CLIMATICI-INQUINAMENTO
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In questa seconda parte dell’intervista al fondatore della corrente letteraria “Fact-Finding Writing”, si parla di filosofia del linguaggio, di religione e di stelle, ma anche di quando e come è nato il movimento, dal nome ai concetti

Traduttore e autore di sette romanzi (l’ottavo è in arrivo), Giovanni Nebuloni ha realizzato il Manifesto della corrente letteraria Fact-Finding Writing, scrittura conoscitiva o scrivere per conoscere: nel moto perpetuo dell’imprescindibile scrittura. Nella prima parte dell’intervista, pubblicata su LucidaMente di febbraio (Le riflessioni di Giovanni Nebuloni sulla scrittura conoscitiva), si parlava della forma narrativa da lui ideata, dell’evoluzione dell’uomo e dell’arte del linguaggio. Pubblichiamo ora il seguito dell’approfondimento sulla Fact-Finding Writing.

Giovanni Nebuloni, lei sostiene che la Fact-Finding Writing sia una sorta di “scienza artistica” libera da formule e convenzioni. Esistono correlazioni con altre attività conoscitive?

«Non credo nella facoltà della scienza di scoprire il perché siamo su questa terra, chi siamo, cosa sia il cosmo, perché ci siano stelle e galassie. Sono certo che non ci sia disciplina che possa comprendere il segreto dell’universo. Faccio qualche esempio. Il filosofo Bertrand Russell diceva che “le stelle sono nel cervello dell’uomo”, che “la fisica è matematica non perché conosciamo così bene il mondo, ma perché lo conosciamo molto poco”, e ancora che “la matematica è la sola scienza esatta in cui non si sa mai di cosa si sta parlando, né se quello che dice è vero” e che “tutte le scienze esatte sono dominate dall’approssimazione”. Ma già nel XVII secolo Galileo Galilei definiva la conoscenza “una lavagna che si scrive alla sera e che si cancella alla mattina”. Interessante è il seguente punto: “La teoria è quando si sa tutto e niente funziona. La pratica è quando tutto funziona e nessuno sa il perché. Noi abbiamo messo insieme la teoria e la pratica: non c’è niente che funzioni e nessuno sa il perché!”. Questo era Albert Einstein».

Come si può inquadrare la religione all’interno del bisogno di sapere?

«Per quanto riguarda le religioni, ognuna può asserire di conoscere da millenni la chiave per svelare il segreto dell’universo, demandando qualsiasi spiegazione a una o più figure divine. Ma si tratta pur sempre di credere per fede, cioè con fiducia illimitata e, alla luce della ragione pura, cieca. Una religione non parla mai di realtà riconosciute da tutti indistintamente e fa affermazioni che non sono dimostrabili scientificamente, non sono una realtà tangibile, documentabile e riproducibile. Un bacio dato con amore o uno schiaffo violento inferto con astio sono riconosciuti tali da chiunque, ma non è così per gli aspetti di fede. Riprendendo Russell: “Non serve tanto il desiderio di credere, quanto quello di scoprire, cioè esattamente il suo opposto”. E noi non crediamo neppure nella possibilità della filosofia di descrivere e spiegare il mondo».

Che correlazione c’è tra questo ragionamento e il linguaggio?

«Rispondo attraverso il filosofo tedesco Martin Heidegger, il principale esponente dell’esistenzialismo. Nelle sue varie opere sta scritto che il linguaggio rende tale la persona, come da noi enunciato in precedenza. “Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto alle altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla”. Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein affermava che “i limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo”. Come dire che il linguaggio è tutto e che “ciò che è pensabile è anche possibile”. Concludo questo ragionamento citando Platone, il quale sosteneva che la definizione della parola è quella di soccorrere incessantemente se stessa. Ovvero, scoprire se stessa».

Quando e come nacque l’idea di fondare il movimento della Fact-Finding Writing?

«Era il 2009 e continuavo a pensare a Eureka di Edgar Allan Poe. Stavo elaborando Dio a perdere e mi accorsi che già con il primo romanzo, La polvere eterna, stavo scrivendo per conoscere. Nel 1848, con la sua composizione di quarantamila parole circa, Poe volle discutere delle relazioni dell’uomo con Dio e con l’universo. Argomentò di astronomia e, soprattutto, concepì uno spazio in evoluzione dinamica, come attualmente si ritiene che sia l’ambiente esterno alla Terra. Si disse persuaso che la nascita del cosmo fosse dovuta alla suddivisione in frammenti di una unità primordiale, una particella primitiva che si frazionava in un flash, un’esplosione che, poi, sarebbe lo stesso Big Bang».

Si può dire che l’autore precorresse i tempi, accennando a teorie di anni successivi.

«Esattamente. In Eureka, Poe affrontò il paradosso dell’astronomo Heinrich Wilhelm Olbers, il quale si era domandato come fosse possibile il buio del cielo notturno nonostante l’infinità di stelle presenti. Poe anticipò di oltre cinquanta anni la risposta corretta, affermando cioè che l’universo non è infinito, che i corpi stellari si evolvono e che la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra. Soltanto nel 1901 lord William Thomson, il barone Kelvin, riconobbe l’esattezza di questa intuizione. Al di là della specificità di tali asserzioni, verità e supposizioni, ciò che è costitutivo per la Fact-Finding Writing è che Poe – non un intellettuale o un filosofo, ma un comune narratore, un artista, ancorché geniale, certo – con un poema in prosa, nel 1848, si poneva al di sopra degli scienziati e precorreva le scoperte del XX secolo. Altri, con l’umiltà di “artisti artigiani,” avrebbero potuto ricalcarne le orme, cercando di riprendere la visione del mondo derivante da Eureka, e indicare la centralità della scrittura nell’arduo cammino verso la conoscenza. Così è nata la Fact-Finding Writing».

13-NebuloniPerché questo nome?

«Ricordavo che “Fact-Finding Writing” è un’espressione utilizzata nel linguaggio forense americano per indicare l’indagine sui fatti durante un procedimento giudiziario, mentre nella comunicazione è la scernita per importanza delle notizie. Decisi di adottarla e rivolgerla all’analisi generale e universale che solo la letteratura può svolgere. Inoltre, gli statunitensi ci hanno “rubato” molti termini, dal latino (post scriptum, plus, sic, id est…) e dall’italiano (spaghetti, maccheroni, pizza, espresso, cappuccino…). Allora io ho voluto “trafugare” qualcosa a loro, cambiando l’applicazione del concetto, senza però corrompere il significato originario di ricerca. E poi l’inglese sta diventando sempre più la lingua universale e non c’è un italiano che non la mastichi, almeno un poco. Il logo della Fact-Finding Writing non poteva essere che la fotografia della Via lattea, la nostra galassia, perché un’immagine dell’intero universo non esiste ancora».

La “Fact-Finding Writing” implica anche uno stile particolare? Nei romanzi le vicende, minuziosamente pensate e raccontate con altrettanta precisione nei dettagli, mai casuali, seguono un percorso che vive di atmosfere “cosmopolite”.

«In un’opera narrativa, certo lo stile non è tutto, altrimenti sarebbe come affermare che l’abito fa il monaco o negare lo spessore, la terza dimensione di un oggetto. Il nostro movimento privilegia innanzitutto il contenuto e, siccome stiamo parlando di conoscenza, è implicito che la storia debba essere sempre nuova ed esprimere qualcosa ancora non detto. Conseguenza di ciò, le trame dei romanzi della Fact-Finding Writing sono assolutamente originali. Il messaggio non è mai banale ed è della più ampia portata possibile: è universale. Nelle nostre pagine c’è un respiro internazionale proprio del villaggio globale. Le storie di questa corrente letteraria non parlano della trita, desueta condizione della donna o dell’uomo, di un serial killer variamente mascherato, di uno stucchevole rapporto fra persone, del drago o delle ninfe. Viviamo nell’era delle immagini, della velocità, e le narrazioni molto estese, i “mattoni” tipo Guerra e pace, non hanno più ragione d’essere. Non si deve tediare e depistare il lettore. La scrittura della Fact-Finding Writing è il risultato di azioni di sintesi. Le narrazioni sono scorrevoli, non ci sono time out o tempi morti. Noi vogliamo annullare la noia».

Che rapporto si instaura tra lo scrittore e i protagonisti che vivono tra le sue pagine?

«L’autore conosce vita, morte e miracoli dei suoi personaggi. Devono bastare poche righe per descriverne il vissuto. Quando non è necessario, essi non vengono delineati minuziosamente. Lo stile della Fact-Finding Writing tiene d’occhio il “terzo occhio”: il cinema. L’obiettivo della corrente è avvicinare il linguaggio cinematografico a quello letterario. Le spiego: per chi legge il libro può diventare una videata da scorrere – non solo mediante dispositivi digitali –, uno schermo di carta capace di piegarsi fisicamente. I protagonisti vengono ripresi da una telecamera, con la quale ci si addentra anche nella loro psiche, mentre l’autore tende a immedesimarsi nei suoi personaggi, al pari di un attore. Ed essi, come in un film, si descrivono anche attraverso le loro parole. I dialoghi vogliono far sì che la pagina, su carta o video, venga percepita come una visione continua, come avviene in un film».

Ringraziamo Giovanni Nebuloni, ideatore e protagonista di quella che, originale e con un approccio innovativo, è la corrente letteraria dedicata al nostro bisogno di conoscere: la Fact-Finding Writing.

Maria Daniela Zavaroni

(LucidaMente, anno X, n. 111, marzo 2015)

17-copertina NebuloniLa nostra rivista si è spesso occupata della produzione narrativa di Giovanni Nebuloni. Ecco un elenco degli articoli già pubblicati, a firma di vari redattori:
Le riflessioni di Giovanni Nebuloni sulla scrittura conoscitiva 1
Un romanzo che indaga su una scienza e una religione folli
La Fact-Finding Writing come forma conoscitiva
«…i luoghi dove più si addensava l’energia dell’universo»
«La testa era collegata a fili che pendevano dall’alto»
Realtà e finzione nel “fact-finding writing”
Una tela di mistero tessuta da religioni, servizi segreti e amore
Nel ventre profondo della divinità
Dalla metropolitana alla steppa mongola
Un oscuro enigma di 3500 anni fa
Un rapido succedersi di abili e sorprendenti colpi di scena
«Il “doppio” può essere la morte»
La polvere eterna di Giovanni Nebuloni

«È una ”kippot”, non devi toccarla!»

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Tags: attualitàdiofact-finding writinggiovanni nebuloniletteraturalinguaggioscienzascrittura
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