Un contesto sociopolitico in grande fermento fece da sfondo alla nascita del movimento dei Fasci italiani di combattimento. Guidata da Mussolini, la compagine fascista mostrò fin da subito il suo carattere violento con la devastazione del quotidiano socialista nell’aprile di 102 anni fa
Il 23 marzo 1919, nella sala riunioni del Circolo dell’alleanza industriale, in piazza San Sepolcro a Milano, vennero fondati i Fasci di combattimento. All’evento parteciparono circa 230 persone: gruppi di diversa formazione ed esperienza politico-culturale formati da reduci della Grande Guerra, arditi, futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici e repubblicani: passeranno alla storia del fascismo come sansepolcristi. Però, fin dalle prime battute, il ruolo di protagonista fu di Benito Mussolini: ex leader socialista, reduce di guerra e all’epoca direttore de Il Popolo d’Italia.
Nonostante l’acceso nazionalismo e l’avversione e aggressività nei confronti dei socialisti, il romagnolo non diede una connotazione ideologico-politica precisa al movimento: capì che mantenendo una posizione camaleontica era possibile sfruttare al meglio le tendenze delle forze politiche più influenti e dell’opinione pubblica, avendo così maggiori possibilità di crescita. Tuttavia, la violenza d’azione contraddistinse da subito il movimento: la prima, eclatante dimostrazione avvenne il 15 aprile 1919. Quel giorno all’Arena di Milano si tenne un comizio socialista e, una volta finito, la folla si riunì in corteo diretta in piazza Duomo. Nel frattempo, anche i fascisti si radunarono. I due gruppi vennero a contatto, originando duri scontri nel corso dei quali morirono diverse persone. Più tardi il corteo fascista si avviò presso la sede dell’Avanti!, il quotidiano storico del Partito socialista italiano (Psi), del quale peraltro dal 1912 al 1914 era stato direttore proprio Mussolini. Essa fu prima devastata e poi data alle fiamme. L’episodio è paradigmatico del clima di tensione creatosi in Italia tra il 1919 e il 1921: periodo chiamato biennio rosso.
Durante l’estate del 1919, nelle grandi città si registrarono i primi tumulti dovuti al carovita, scioperi nei servizi pubblici e varie agitazioni sindacali. In campagna, soprattutto della Bassa Padana, scoppiarono le lotte dei lavoratori agricoli, molti dei quali si organizzarono nelle leghe rosse, detenenti la maggioranza della rappresentanza sindacale. Altri braccianti occuparono latifondi e terre incolte. Nondimeno, le “rivoluzioni” di questo periodo si rivelarono scoordinate e poco efficaci. Con queste premesse i fascisti si presentarono alle elezioni politiche indette per il 16 novembre 1919.
La votazione era la prima a tenersi con il metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista, e l’esito per i Fasci di combattimento fu tutt’altro che positivo: ottennero solo qualche migliaio di voti e nessun seggio alla Camera. Il fallimento fu dovuto principalmente alla grande eterogeneità del movimento e alla confusione dei programmi e delle parole d’ordine. Così, nei mesi successivi, i fascisti decisero di modificare il proprio modus operandi politico. Vi fu una vera e propria “organizzazione della violenza”, che prese il nome di fascismo agrario e squadrismo. I fascisti si disposero in squadre d’azione paramilitari; la loro composizione era assai variegata: ex militari del recente conflitto che pertanto avevano pratica di armi e, incapaci di reintegrarsi nella vita civile, divennero professionisti della violenza; studenti universitari e giovani che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e desideravano avere l’occasione per combattere contro i “nemici della patria”; diversi coltivatori diretti; mezzadri; medi e grandi affittuari. Il loro scopo era intimidire e reprimere violentemente gli avversari politici e le loro istituzioni, in particolare gli appartenenti al movimento contadino della sfera socialista.
La modalità di attacco tipica delle squadre consisteva nel partire a bordo di camion, normalmente dai capoluoghi di provincia o comunque dai centri urbani, per poi attaccare, devastare e incendiare municipi, camere del lavoro, sedi delle leghe e dei sindacati, case del popolo. In queste spedizioni punitive erano anche colpiti e terrorizzati individui, specificatamente dirigenti, militanti socialisti, sindacalisti di braccianti e piccoli coltivatori. Quando il raid finiva, le squadre si ritiravano nelle città di provenienza. A organizzare e guidare gli attacchi erano i ras: una sorta di capi militari a livello provinciale. Tra i più illustri compaiono nomi di fascisti che saranno protagonisti durante il Ventennio, come Leandro Arpinati a Bologna, Italo Balbo e Olao Gaggioli a Ferrara e Roberto Farinacci a Cremona.
Il fenomeno dello squadrismo si intensificò tra l’estate e l’autunno del 1920, con l’aumentare di scioperi, occupazioni di fabbrica e proteste contadine socialiste. A ciò si aggiunse il fatto che le elezioni amministrative furono un altro insuccesso per i Fasci, poiché i socialisti conquistarono tantissimi comuni. A questo punto la violenza squadrista dilagò nel Nord e Centro Italia, interessando al Sud grossomodo solo la Puglia. In questo quadro si collocano i fatti di Palazzo d’Accursio, a Bologna, del 21 novembre 1921. Programmata per questa data la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista, i fascisti si mobilitarono per impedirla. Fuori e dentro il municipio vi furono violenti scontri e sparatorie. Nel marasma generale, alcuni socialisti incaricati della difesa del palazzo spararono sulla folla. Il bilancio fu di nove morti e cinquanta feriti. I Fasci colsero l’occasione per dare inizio a nuovi atti di violenza squadrista, che si consumarono nei mesi successivi nelle provincie padane.
In linea di massima, in questo periodo, la violenza fascista godette della connivenza di buona parte delle istituzioni, ciascuna per ragioni di proprio interesse. La forza pubblica e la magistratura vedevano nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro le sinistre rivoluzionarie. Il governo, capeggiato da Giovanni Giolitti, pensò di servirsi del movimento per ridurre le pretese dei socialisti, e in seguito “costituzionalizzarlo” assorbendolo nella maggioranza liberale. Mussolini decise che fosse giunto il momento di inserire il movimento nel “gioco politico ufficiale”. Alle elezioni del 15 maggio 1921, la classe dirigente italiana approvò l’ingresso dei fascisti nei blocchi nazionali.
Si trattava di liste di coalizione in cui liberali giolittiani, nazionalisti e altri conservatori si unirono per impedire l’affermazione dei partiti di massa (il Psi e il cattolico Partito popolare italiano, fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo). In effetti, la tornata elettorale fu vinta proprio da Psi (24,7%) e Ppi (20,4%), la cui alleanza di governo era però reciprocamente considerata incompatibile per motivi di lontananza ideologica. Intanto erano entrati alla Camera dei deputati 35 candidati fascisti. Il nuovo capo del governo, Ivanoe Bonomi, tentò di far cessare la violenta lotta tra le fazioni politiche. A tal proposito propose a socialisti e fascisti un Patto di pacificazione, firmato della due parti il 3 agosto 1921. Ciò, però, provocò diversi malumori all’interno dei Fasci, soprattutto tra i ras più influenti, che misero in discussione la leadership di Mussolini. Il futuro duce si rese conto che non poteva fare a meno dello squadrismo agrario: sconfessò il Patto, riottenendo così il favore dei ras, e indisse un congresso dei Fasci di combattimento, che si tenne a Roma dal 7 al 10 novembre 1921. È qui che fu deciso di scogliere il movimento e dare vita a un vero e proprio partito politico: il Partito nazionale fascista (Pnf). Frattanto, a inizio del 1921, alla fine del celebre Congresso di Livorno, con una scissione dal Psi, era stato fondato il Partito comunista d’Italia (Pcd’I). Ciò divise ulteriormente il campo delle sinistre e degli oppositori al sempre più rampante movimento mussoliniano.
Mario Curreli
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 184, aprile 2021)