A. LO SCIOPERO: I PROTAGONISTI DELLA SUA REGOLAMENTAZIONE
1.IL CASO ITALIANO. DAL CODICE PENALE SARDO AL TESTO COSTITUZIONALE.
Senza dubbio l’aspetto più appariscente ed emblematico del fenomeno sindacale è rappresentato dallo sciopero. Lo sciopero è stato prima represso come “ reato” (soggetto a pene detentive e pecuniarie) poi tollerato come mera “libertà” (lasciato alle sole sanzioni disciplinari del datore) infine protetto, fino ad essere riconosciuto, sia pure in grado più o meno forte, come “diritto” (non passibile né di pene pubbliche né di sanzioni private).
Il caso italiano è esemplare dell’evoluzione disarmonica dello sciopero. Il codice penale sardo del 1859 prevede come reato lo sciopero, sempreché non giustificato da una ragionevole causa; ma, un triennio più tardi, viene sostituito dal codice penale Zanardelli del 1889, che non punisce più lo sciopero, ma solo l’eventuale comportamento violento o minaccioso diretto verso un lavoratore, per costringerlo ad astenersi dal lavoro.
La controrivoluzione che inaugura l’epoca fascista si intravede già nella legge 3 aprile 1926, n. 563 che definisce la scelta politica ed istituzionale di base. Come ricordato, si esclude la libertà di associazione e di auto-tutela, ma si introduce contestualmente il sindacato pubblico, unico per ogni categoria amministrativamente determinata, il contratto collettivo con efficacia erga omnes, la magistratura del lavoro competente anche per la soluzione delle controversie collettive d’interesse.
La repressione della libertà di lotta sindacale troverà una più compiuta ed articolata previsione nel nuovo codice penale del 1930, peraltro sempre secondo quella formula apparentemente neutra che accomuna sciopero e serrata.
È un grande sciopero, quello torinese del marzo 1943 ad anticipare il crollo del fascismo. Di stretto diritto c’è subito dopo un ritorno alla situazione precedente alla legge del 1926, almeno per chi ritiene che il D.lgt 23 novembre 1944, n. 369, soppressivo dell’ordinamento sindacale- corporativo, reintrodurla la libertà di sciopero.
Il dato di fatto della non punibilità del fenomeno viene ben presto consacrato nell’art. 40 del testo costituzionale, con l’espresso e solenne riconoscimento del diritto di sciopero.
Passando le fonti internazionali e comunitarie va segnalato che la disciplina dello sciopero è tradizionalmente esclusa dal campo d’intervento sia delle convenzioni Oil sia delle direttive comunitarie. Da ultimo, tuttavia, la cosiddetta “Costituzione europea” riconosce, nell’articolo II-88, in capo ai lavoratori, ai datori e alle rispettive organizzazioni “il diritto di ricorrere, in caso di conflitto di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei propri interessi, compreso lo sciopero”.
- I PROTAGONISTI NELL’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DELLO SCIOPERO. IL PARLAMENTO.
L’art. 40 Cost. contiene un rinvio al Parlamento per il varo di un testo legislativo largamente discrezionale circa il tempo d’esercizio: se e quando ritenuto possibile ed opportuno. Se così, il fatto che nell’arco di una quarantennio tale testo non abbia visto la luce non può essere considerato un vero e proprio caso di “inadempimento costituzionale”, ma deve essere spiegato storicamente.
A distanza di oltre vent’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, ecco una legge (lo Statuto dei lavoratori del 1970) che parlava dello sciopero, ma non direttamente per darne una regolamentazione, bensì indirettamente per offrirne una tutela rafforzata.
Con l’avanzare del decennio 1981-1990, la tematica dell’intervento legislativo nei settori più caldi acquista rilevanza quasi esclusiva. Ne segue l’emanazione di una legge fu concertata 12 giugno 1990, n. 146 in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali che attribuisce un rilievo prioritario agli accordi e contratti collettivi come fonte regolativa del conflitto; istituisce una Commissione di garanzia, con competenza para-giurisdizionale, sull’attuazione della legge; sopprimere la vecchia sanzione penale per sostituirla con una nuova tipologia sanzionatoria (civile e amministrativa) a carico dei lavoratori, datori e sindacati; riforma la precettazione ritagliando una disciplina speciale per le ipotesi riconducibili nell’ambito della legge.
Dieci anni dopo la legge n. 146, la legge 11 aprile 2000, n. 83 corregge i principali punti deboli della disciplina base, conservandone le caratteristiche di fondo. La novella ritocca la strumentazione negoziale e gli obblighi delle parti, ricalca i poteri della Commissione di garanzia, perfeziona il sistema sanzionatorio, estende le regole da rispettare in caso di sciopero anche alle astensioni collettive di lavoratori non subordinati.
- LA DOTTRINA E LA GIURISPRUDENZA
L’inerzia del Parlamento doveva lasciare strada aperta alla supplenza della dottrina e della giurisprudenza.
Secondo una prima distinzione, il diritto di sciopero sarebbe, da subito, soggetto a limiti circa il titolare, il comportamento attuativo, il fine perseguito: limiti cd. coessenziali, perché connaturati al concetto di sciopero assunto a referente del riconoscimento ed al rilievo del riconoscimento medesimo all’interno del testo penale e dell’ordinamento intero. Sarebbe, in futuro, assoggettabile ad eventuali altri limiti circa un previo intervento sindacale, un preavviso, un tentativo di conciliazione, un referendum: limiti cd. d’esercizio, perché appunto relativi all’esercizio e dunque intraducibili solo dal legislatore, in forza di un apposito provvedimento.
Su questa distinzione se n’è poi radicata un’altra con riguardo grosso modo al terreno coperto dai limiti deducibili dallo stesso studioso o dal giudice: limiti “interni”, desumibili dal concetto di sciopero recepito nell’art. 40, e limiti “esterni”, desumibili dal contemperamento fra diritto di sciopero e altro diritto costituzionalmente tutelato a livello identico o superiore.
Inoltre, con il passare del tempo e con il migliorare dell’atmosfera del paese, le linee interpretative prevalenti o dominanti hanno registrato una progressiva evoluzione sulla via di una graduale liberalizzazione della disciplina extra-legislativa dello sciopero, seppur conservando alcune coordinate base: la natura privatistica dell’organizzazione e dell’attività collettiva, la immediata precettività del riconoscimento costituzionale di cui all’art. 40; la titolarità individuale del diritto di sciopero; la priorità accordata alla regolamentazione civilistica, con esclusione o disapplicazione di quella penalistica repressiva dello sciopero, ereditata dall’epoca precedente.
Infine, a seguito dell’emanazione della L. n. 146 del 1990, gli interpreti si occupano in modo prevalente della messa a punto del suo circuito normativo, seppure con posizioni tendenzialmente diverse: la dottrina guidata dall’idea di rafforzarne le regole; la giurisprudenza attenta a rispettarne gli equilibri interni, con un sostanziale self restaint.
Ma la conclusione da trarre non è che la magistratura penale sia stata poco attiva sull’intero fronte della lotta operaia e sindacale. L’iniziativa della magistratura penale è apparsa alterna a seconda della congiuntura politica, sindacale, conflittuale; ma certo notevole ed a volte diffusa ed incisiva.
- LA CORTE COSTITUZIONALE.
La Corte non manca di rimproverare tale “‘assenza” del Parlamento; ma esplicita subito la sua intenzione di assumere in prima persona una specie di alta supplenza: di guida rispetto alla magistratura, di sollecitazione rispetto alla classe politica, di chiarificazione rispetto all’organizzazione sindacale, di influenza rispetto all’opinione pubblica.
La Corte scarterà subito la via radicale di una soppressione aselettiva e totale della disciplina penale. Essa, invece, sceglierà la via gradualista di una soppressione selettiva e parziale e la percorrerà con l’ausilio di una peculiare tecnica argomentativa e decisionale.
Così la Corte finisce per riproporre la vecchia disciplina penale, seppur notevolmente purgate e modificata all’insegna della stessa progressiva liberalizzazione nell’atteggiamento rispetto al conflitto delineata dalla dottrina e giurisprudenza civile: crescente recupero dello sciopero come canale costituzionalmente tutelato di aggregazione, espressione e promozione di domanda non solo strettamente rivendicativa, ma anche politica, cui si accompagna il riconoscimento dello stesso quale diritto della personalità; crescente auto-contenimento, cui si accompagna il ridimensionamento di un certo apriorismo definitorio.
Volendo dare una rappresentazione sommaria della parte giocata dalla Corte, c’è da fare una distinzione in ragione dell’area investita: relativa ai soggetti ed ai fini; e relativa ai modi dello sciopero. I soggetti sono enucleati dall’art. 330, così da escludere la titolarità del diritto di sciopero a capo degli addetti a funzioni o servizi pubblici essenziali. I fini sono enucleati dall’art. 503, così da escludere lo sciopero politico. Relativamente ai modi dello sciopero la Corte dichiara incostituzionale l’art. 502 che prevedeva come reato lo sciopero per fini contrattuali, effettuato come “abbandono collettivo” o anche come “prestazione irregolare”. Ma forse anche consapevole d’essere andata oltre la sua stessa intenzione, conferma autorevolmente che il riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero copre solo l’abbandono collettivo tradizionalmente inteso, cioè “totale” o comunque tale da arrecare un “pregiudizio non… diverso o maggiore di quello necessariamente inerente alla pura e semplice sospensione dell’attività lavorativa”.
Se pure è avvertibile qualche apertura da parte della stessa Corte, qui sarà la magistratura civile a procedere oltre, specie nel corso del decennio ‘70, fino ad un recupero all’ambito del diritto di sciopero di non poco di quel che precedentemente veniva tacciato come anomalo e giudicato illegittimo, cioè lo sciopero articolato.
All’indomani della L. n. 146 del 1990, la Corte si vede privata di una grossa porzione della vecchia disciplina penale(gli art. 330 e 333), sulla quale aveva ritagliato le regole in tema di soggetti e fini del diritto di sciopero nei servizi pubblici, però nel contempo viene offerto al suo vaglio di legittimità costituzionale un nuovo ed articolato testo legale rispetto al quale, da un lato, respinge le censure di legittimità circa il sistema ivi delineato di regolamentazione dello sciopero, dall’altro, risulta sensibile agli aggiustamenti evidenziati dall’esperienza applicativa sì da influenzare la novella del 2000.
- IL GOVERNO E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Protagonista assai importante è stato lo stesso potere esecutivo, nell’influire sul regolamento e soprattutto sull’esercizio effettivo del diritto di sciopero. Volendo trarre un bilancio complessivo anche l’atteggiamento del Governo è venuto progressivamente mutando, da apertamente repressivo, a neutrale, a promozionale.
Rimane però, anzi cresce, il ricorso del Governo, tramite i prefetti, all’istituto della precettazione, così come previsto dall’art. 20 del T.U. 1 com. e prov. n. 383/1934, che autorizza gli stessi prefetti nei rispettivi ambiti provinciali e intercomunali ad ammettere ordinanze urgenti a tutela della sanità e sicurezza pubblica, sanzionate penalmente.
Di grande interesse è il progressivo mutamento nel ruolo di mediazione e conciliazione del Governo, divenuto col tempo sempre più intenso ed aperto rispetto al movimento sindacale.
- LE ORGANIZZAZIONI SINDACALI
Significativa è risultata e risulta la stessa autoregolamentazione, nella duplice forma nota anche alla nostra esperienza: quella unilaterale o autoregolamentazione in senso stretto, posta dalla sola organizzazione sindacale; e, rispettivamente, quella bilaterale o regolamentazione pattizia, convenuta con la controparte datoriale.
L’autoregolamentazione unilaterale è ora in declino nell’ambito del lavoro subordinato, mentre viene rilanciata nell’area del lavoro autonomo. Non è mancata e non manca pure un’esperienza di regolamentazione bilaterale quale quella data da clausole di tregua o pace sindacale, correlate alla durata dei relativi contratti collettivi, ovvero all’attivazione di appositi procedimenti preventivi e compositivi dei conflitti.
Diversa è la vicenda di quella regolamentazione bilaterale riguardante le modalità di astensione dal lavoro in settori, stabilimenti, impianti, strutturalmente tali da non permettere interruzioni improvvise e totali, se non a costo di rischi o danni per persone e/o macchine. Antesignano in tal senso rimane l’accordo aziendale Cogne del 1960, divenuto poi una sorta di contratto-tipo per l’industria siderurgica. Certo è che lasciati largamente al autoregolamentazione sotto forma di prassi, gli scioperi negli impianti ciclo continuo sono diventati sempre più un problema “caldo”, relativamente ai loro tempi e modi attuativi, dallo spesso luogo ad episodi giudiziari. Particolarmente rilevanti sono risultati casi e criteri relativi a quanti e quali lavoratori dovessero continuare a restare in servizio durante il corso dello sciopero per garantire il graduale spegnimento o il costante funzionamento al “minimo tecnico” di impianti altrimenti esposti a danni irreversibili (altiforni siderurgici, impianti chimici), cioè alle cosiddette comandate. In difetto di accordi, assai spesso i datori hanno proceduto unilateralmente, cercando ovviamente di contare su comandate consistenti, tali da assicurare livelli produttivi non troppo lontani da quelli normali, e di contro i sindacati hanno risposto riducendo più o meno drasticamente le comandate medesime e/o chiamando in giudizio i datori medesimi per comportamenti antisindacali, subito o a seguito di reazioni in termini di chiusure aziendali o sanzioni disciplinari.
Ben più rilevante, dopo la legge n. 146/1990 e la cosiddetta privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, è il ruolo della regolamentazione bilaterale -nella veste di contratti collettivi- scelta come referente privilegiato per individuare le prestazioni indispensabili in caso di sciopero effettuato nell’ambito dei servizi pubblici essenziali.
- LA COMMISSIONE DI GARANZIA
L’ultimo protagonista, ma solo in ordine temporale, della regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali è delineato dalla L. n. 146 del 1990: la Commissione di garanzia, un organo basato sulla “terzietà” e costruito in maniera da risultare funzionale alla stessa attuazione della legge.
B. IL DIRITTO DI SCIOPERO E LE ALTRE FORME DI LOTTA
- FONDAMENTO E NATURA DEL DIRITTO DI SCIOPERO
Non esiste una risposta univoca e definitiva circa nozione e disciplina del diritto di sciopero: è una constatazione di fatto, dato che non è esistita ieri e non esiste oggi una dottrina ed una giurisprudenza unanime.
Se tale è la premessa fattuale e metodologica, la conclusione non è necessariamente all’insegna dell’incertezza e della provvisorietà. Salvo qualche isolato dissenso, l’art. 40 Cost. venne subito considerato immediatamente precettivo. Il che volle dire riformulare e scomporre quel testo, come se contenesse un duplice disposto: il diritto di sciopero è riconosciuto; il diritto di sciopero dev’essere esercitato nell’ambito delle leggi che lo regolano.
Da ciò derivano due differenti filoni interpretativi:
– C’è un filone interpretativo, via via ridimensionato col trascorrere del tempo, che si sviluppa all’ombra del presupposto di una distinzione netta fra sistema politico e sistema sindacale, con quest’ultimo ristretto all’interscambio tra le parti collettive; per cui lo sciopero è mero strumento, secondo un modello, di autotutela contrattuale, ovvero, secondo altro modello, di autotutela organizzativa.
– C’è un altro filone interpretativo, ormai divenuto prevalente, che riflette un progressivo offuscamento della distinzione tra sistema politico e sindacale. Se pur in modo tutt’altro che univoco, si riconosce che il sistema politico è interconnesso col sindacale, il sistema sindacale è aperto all’interscambio col Parlamento col Governo, lo sciopero è legittimato ben oltre lo scopo contrattuale od organizzativo.
Ormai l’itinerario normalmente seguito è quello ben noto di un raccordo fra l’art. 40 e l’art. 3, comma 2° della Costituzione, che recepisce il principio di eguaglianza cosiddetta sostanziale. Secondo un giudizio tipizzato, il riconoscimento del diritto di sciopero troverebbe fondamento nell’essere questo strumento idoneo a realizzare, già nel suo svolgimento, l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese; e comunque nel suo risultato, la rimozione di quella persistente diseguaglianza, impeditiva o limitativa di tale effettiva partecipazione.
Nonostante tutto, però, il quadro delineato precedentemente può ben essere ripreso qui. S’assume a punto di partenza quello che vede nel diritto di sciopero riconosciuto dall’art. 40 un vero e proprio diritto soggettivo, cioè un potere attribuito ad un soggetto per il soddisfacimento di un interesse, sono suo od anche suo.
Così elevato a diritto assoluto lo sciopero viene del tutto sganciato dal contratto individuale e dal contratto collettivo di lavoro: inerisce allo stato di prestatore subordinato, non al contratto individuale che di quello stato costituisce un semplice presupposto; sospende l’obbligo lavorativo, ma non rimane confinato al mero ottenimento di un diverso trattamento economico-normativo da parte di quello stesso datore che deve subire l’abbandono dal lavoro.
- TITOLARITÀ DEL DIRITTO
Secondo un modello ormai tralaticio, il diritto di sciopero viene riconosciuto come un diritto individuale quanto al titolare, ma collettivo quanto all’esercizio. Portando il ragionamento fino in fondo, ciò vuol dire che un abbandono del lavoro assurge ad esercizio del diritto di sciopero, solo se ed in quanto attuato da un numero più o meno consistente di prestatori per un fine comune.
Se è vero che c’è un atteggiamento contrario a qualsiasi “monopolio legale” del sindacato sullo sciopero, è anche altrettanto vero che tale atteggiamento appare da tempo accompagnato da un altro favorevole ad un controllo “politico” da parte dello stesso sindacato sull’andamento quantitativo e qualitativo del conflitto.
- AMBITO DEL DIRITTO
Il diritto di sciopero è ricollegabile all’art. 3, 2° comma, è qualificabile come un diritto di libertà ed è configurabile come un diritto a titolarità individuale e ad esercizio collettivo.
Sicché è sciopero solo quello consolidato come tale nel sentire e nella prassi sindacale, cioè un abbandono del lavoro, collettivo nello svolgimento e nel fine. È questo l’approdo raggiunto dalla Cassazione. Secondo un suo giudicato (sent. n. 711/1980) il significato attribuibile allo sciopero è “quello che la parola ed il concetto da esso sotteso hanno nel comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale”; e appunto con la parola sciopero nel nostro contesto sociale “suole intendersi nulla più che un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”.
- I SOGGETTI TITOLARI
S’è dato a suo tempo per scontato che il diritto di sciopero inerisce allo stato di prestatore subordinato, tanto che costui ne è titolare.
Senza dubbio, titolare del diritto di sciopero è pure l’apprendista, il lavoratore in prova, il lavoratore a tempo determinato, il lavoratore a tempo parziale, il dirigente, nonché lo stesso lavoratore a domicilio.
Inaugurando l’indirizzo relativo all’art. 330 cod. pen., la Corte Costituzionale ritiene subito che il diritto di sciopero spetti al dipendente pubblico così come a quello privato. Non è titolare del diritto di sciopero né il militare né il poliziotto.
Più impegnativo è l’interrogativo se sia configurabile un vero e proprio diritto di sciopero anche in capo a un lavoratore autonomo. È d’obbligo qui il richiamo al processo espansivo a favore del lavoratore cd. parasubordinato.
Ma già qualche anno prima, la Corte Costituzionale era andata oltre, così da far ricadere sotto la tutela di cui all’art. 40 la chiusura dei rispettivi esercizi da parte di piccoli commercianti privi di lavoratori subordinati, per protesta contro fatti o provvedimenti incidenti sulla loro attività economica.
Vent’anni dopo, la stessa Corte estende le regole della legge n. 146/1990 anche alle astensioni dall’attività giudiziaria degli avvocati. Su quella scia, la successiva legge n. 83/2000 dichiara esplicitamente l’applicabilità di alcune regole pure a lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori.
- I MODI ATTUATIVI
Se l’attenzione prioritaria è rimasta a lungo concentrata sugli scopi dello sciopero, essa si è poi spostata sui modi attuativi.
Volendo semplificare, è bene scegliere un’impostazione per così dire cronologica, ricalcata sulla sequenza di un’astensione dal lavoro tipica. C’è tutta una fase preliminare costituita dalla definizione e presentazione della piattaforma, dalla richiesta e dall’eventuale apertura di una trattativa, dalla deliberazione proclamazione delle lotte. Non è, tuttavia, una fase necessaria, né in fatto né in diritto.
Non c’è, dunque, da rispettare sempre e comunque l’obbligo di dare ed osservare un congruo preavviso. Questo vale solo se previsto: in modo esplicito, da una specifica disposizione legislativa, che lo contempli direttamente, o indirettamente, come contenuto di un codice di autoregolamentazione, di un accordo collettivo o, anche in modo implicito, in forza di una specifica situazione tale da rendere un’astensione dal lavoro improvvisa e non preavvertita rischiosa o lesiva rispetto all’integrità di persone o cose.
Nel nostro linguaggio comune e legale costituisce lo sciopero in senso proprio, cioè “l’abbandono del lavoro” o “l’astensione dal lavoro”.
Riguardo alla durata, la distinzione classica passa fra lo sciopero ad oltranza -almeno tendenzialmente progettato e perseguito fino al successo od al fallimento finale, per settimane o addirittura per mesi- e lo sciopero a tempo -programmato e condotto per un certo tempo.
C’è uno sciopero cd. breve, per un tempo inferiore all’orario giornaliero, uno sciopero cd. dimostrativo o simbolico, per un tempo brevissimo, computabile in minuti, attuato in segno di protesta o di solidarietà rispetto a certi fatti particolarmente gravi e significativi.
Nella diversa prospettiva dell’estensione, la prima figura a venire alla mente è quella dello sciopero generale, cioè potenzialmente esteso all’intero universo del lavoro subordinato di un paese, di un grande settore produttivo, di un territorio. Meno appariscente, ma più connaturata all’essenza stessa dell’esperienza sindacale, è la figura dello sciopero dei lavoratori appartenenti ad una certa categoria “industriale”. Data la nostra struttura e contrattuale, di regola trattasi di sciopero dei lavoratori facenti capo ad una categorie “industriale”: sciopero categoriale (nazionale, di gruppo, locale) e sciopero aziendale (d’azienda, di stabilimento, di reparto). Lo sciopero aziendale può essere “totale” o “parziale”, a seconda che sia programmato, proclamato e attuato con riguardo a tutti i dipendenti o ai soli dipendenti di uno stabilimento, reparto ecc.
L’articolazione è la caratteristica più attuale e significativa, per cui l’astensione collettiva viene programmata, così da non risolversi in una contemporanea e continua interruzione della prestazione, ma articolarsi, appunto, secondo una data combinazione spaziale e/o temporale. Essa implica un’elevata capacità organizzativa.
L’ipotesi tipica dello sciopero cd. articolato conosce una duplice variante base: lo sciopero a singhiozzo, costituito da un susseguirsi di brevi interruzioni e riprese del lavoro, da parte di tutti i lavoratori interessati; lo sciopero a scacchiera, dato da un alternarsi di interruzioni del lavoro, volta a volta da parte dei soli lavoratori di determinati reparti, gruppi, profili professionali. Ma che, poi, assume spesso una forma mista o composita, secondo una tipologia estremamente varia.
L’evoluzione della valutazione dello sciopero cd. articolato da parte della Cassazione:
a) Nel periodo iniziale, che giunge fino a quasi a mezzo decennio ‘70, lo sciopero cd. articolato è tenuto al bando, con un discorso piuttosto vario, ma tutto segnato da un netto apriorismo ideologico e definitorio. Se il percorso è vario, il punto d’arrivo tende ad essere più o meno identico, cioè tale da farne un comportamento anomalo, equiparabile all’ostruzionismo, alla non collaborazione ecc. e quindi illecito.
b) Nel periodo successivo, che giunge fin quasi al termine del decennio ‘70, è avvertibile un primo significativo mutamento, dovuto a più di un motivo. Lo sciopero cd. articolato appare ormai largamente diffuso e relativamente accettato. L’approccio appare diverso rispetto al periodo iniziale. Di fronte uno sciopero articolato l’accento è posto non più sul modo motivo, ma sul rendimento del lavoro (inteso in modo elastico) offerto dal personale attualmente non scioperante: cioè, intermittente, negli intervalli di uno sciopero a singhiozzo; o, alternativamente, nei reparti volta a volta non interessati da uno sciopero a scacchiera. E, similmente, d’ innanzi ad uno sciopero in lavorazioni a ciclo continuo od integrato, l’accento è posto sul rendimento del lavoro reso disponibile dal personale al termine dello stesso, quando deve essere gradualmente riattivato l’impianto.
Secondo questo approccio il lavoro così offerto o reso disponibile deve essere non solo utilizzabile (nel senso di idoneo a realizzare un sia pur minimo risultato produttivo), ma anche proficuo, secondo lo standard normale (nel senso di idoneo a conseguire l’intero risultato produttivo dedotto ed atteso, e, per di più, a conseguirlo senza costo od onere aggiuntivo per lo stesso datore). Altrimenti il datore può ben rifiutarlo e non retribuirlo, come non corrispondente a quanto contrattualmente dovuto, facendo ricorso all’eccezione di inadempimento (art. 1460 cc.), o al rifiuto giustificato della collaborazione all’adempimento.
c) Nell’ultimo periodo, che inizia nel decennio ‘80 e giunge fino ad oggi, pare compiersi il processo evolutivo in corso. La Corte di Cassazione finisce per far coincidere il concetto legale, di cui all’art. 40, con il concetto comune di sciopero, comprensivo dello stesso sciopero articolato. Il significato attribuibile allo sciopero deve essere quello corrente nel contesto sociale, cioè “nulla di più di un’astensione dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. Significato, questo, che esclude quei limiti “interni” prima ridotti dal modo (solo continuativo e contestuale) o dall’effetto dannoso (solo lucro cessante) dell’astensione dal lavoro.
È vero che anche lo sciopero articolato è ormai considerato legittimo, sempre che rispettoso dei limiti “esterni”, ricollegabili all’esigenza di salvaguardare un altro diritto sovraordinato o quanto meno pari-ordinato rispetto a quello garantito dall’articolo 40.
c1) Il primo aspetto è costituito dal fatto che viene contestualmente ridisegnato l’ambito stesso dei limiti “esterni”, coll’includervi un limite cognato di fresco, quale quello dettato dalla necessità di tutelare l’impresa come “organizzazione istituzionale” (cd. produttività aziendale).
c2) Il secondo aspetto è dato dal fatto che, nella sostanza, non viene affatto rovesciato il preesistente indirizzo circa il potere del datore di non accettare e retribuire il lavoro offerto negli intervalli di uno sciopero a singhiozzo, nei reparti di volta in volta non coinvolti da uno sciopero a scacchiera, nei tempi di riavvio dell’impianto di lavorazioni ciclo continuo od integrale interessate da uno sciopero.
A conti fatti, il recupero di un concetto legale di sciopero così largo da farlo coincidere con quello comune avviene con un certo processo. Tale approfondimento procede secondo un duplice passaggio: in primo luogo c’è da accertare quale altro diritto costituzionalmente garantito sia sovraordinato o pari-ordinato al diritto di sciopero, così da giustificarne un qualche limite; in secondo luogo c’è da verificare quali limite sia ammissibile, assoluto o relativo, escludente la stessa titolarità od incidente sul solo esercizio, rigido o flessibile.
Quali diritti costituzionalmente garantiti possono essere considerati sovraordinato od almeno pari-ordinati, tali da imporre sacrifici od almeno contemperamenti con riguardo agli scioperi?
– Secondo l’opinione unanime, i diritti inerenti alla vita e all’integrità psico-fisica dell’individuo, che non possono essere esposti a rischi o a danni da eventuali abbandoni del lavoro.
– Secondo l’opinione maggioritaria, i diritti relativi alla libertà del singolo dipendente -non aderente ad uno sciopero- di raggiungere il posto di lavoro o comunque di svolgere il lavoro, nonché alla libertà del singolo imprenditore -di fronte ad uno sciopero- di disporre degli impianti e dei beni aziendali.
– Secondo la Corte costituzionale in tema di sciopero politico, “i diritti ed i poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare”, che non possono essere mortificati o prevaricati da eventuali tipi di mobilitazione e di lotta capaci di produrre simili effetti.
– Infine, secondo la Cassazione, l’impresa come “organizzazione istituzionale e non gestionale”, cioè la “produttività e non la produzione aziendale”. Nel legittimare qualsiasi astensione dal lavoro, semplice od articolata, la Corte ribadiva la limitazione data dalla protezione della vita e dell’integrità psicofisica della gente coinvolta, ma ne aggiungeva un’altra costituita dalla salvaguardia della stessa sopravvivenza dell’impresa: appunto dell’impresa come “organizzazione istituzionale”, combinazione di uomini e di mezzi, cioè “della produttività aziendale” come capacità di continuare a svolgere la propria iniziativa economica.
Il secondo problema è costituito dal verificare quale sacrificio sia conseguentemente necessario con riguardo allo stesso diritto di sciopero.
- GLI SCOPI
Alla Corte costituzionale è stato richiesto di pronunciarsi sulla legittimità della normativa penale. La normativa principale di cui agli art. 502 e seguenti c.p., ruota sostanzialmente intorno ad una distinzione di base:fra divieto dello sciopero a scopo contrattuale e divieto dello sciopero a scopo non contrattuale, cui risulta riconducibile, oltre a quello a fine politico, anche quello di coazione alla pubblica autorità e di solidarietà o di protesta.
La Corte percorrerà la via gradualista di una soppressione selettive e parziale della disciplina in esame secondo una significativa evoluzione, tutt’altro che sintonica rispetto alla crescita economica, sociale, culturale, politica, sindacale del paese.
Secondo il dettato dell’art. 502, comma 2°, c.p., lo sciopero a fine contrattuale sarebbe stato quello attuato allo scopo di premere sul datore di lavoro, per ottenere un trattamento migliore (offensivo) od evitarne uno peggiore (difensivo) rispetto a quello pattuito o comunque applicato nel luogo di lavoro. Quello stesso sciopero che è stato all’origine del primo associazionismo operaio e del concordato di tariffa, e che, è rimasto alla base di ogni sistema sindacale occidentale, quale mezzo di utilizzabile in vista di un nuovo regolamento collettivo od in difesa di uno vecchio.
Non sorprende che tale disposto che sia subito considerato caduto nel nulla, ancor prima di essere dichiarato incostituzionale all’inizio del decennio 1961-1970.
Lo sciopero a fine non contrattuale, cioè quello delineato nel codice penale come sciopero politico, di coazione alla pubblica autorità, di solidarietà e di protesta.
Lo sciopero di imposizione economico-politica è sconosciuto al codice penale. È una figura inventata dalla dottrina per indicare un abbandono dal lavoro diretto sì verso il Governo e/o il Parlamento, ma per ottenere od impedire un intervento governativo e/o legislativo d’interesse e rilievo immediato per il mondo del lavoro subordinato.
La stessa Corte costituzionale, col dare vita alla figura dello sciopero a fine economico esteso alla tutela di interessi economici, intesi come “il complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina nelle norme racchiuse sotto il titolo III”.
La seconda figura, quello dello sciopero di solidarietà, è invece nota al codice penale: quello di solidarietà è uno sciopero “secondario”, attuato da alcuni lavoratori a sostegno di uno sciopero “primario” eseguito da lavoratori dipendenti da altri datori. La Corte costituzionale viene legittimare la figura dello sciopero di solidarietà, non nella sua più ampia versione, di una solidarietà “politica”, costruita sull’appartenenza alla “classe”, ma nella sua più ristretta versione, di una solidarietà “economica”, basata sull’appartenenza ad una “categoria”.
Nella sent. n. 290/1974 la Corte per la prima volta: considera lo sciopero come “un mezzo che, necessariamente valutato nel quadro di tutti gli strumenti di pressione usati dai vari gruppi sociali, è idoneo a favorire perseguimento dei di cui al 2°comma, art. 3 della Costituzione”; riconosce l’esistenza oltre ad uno spazio coperto dal diritto di sciopero (come tale lecito penalmente e civilmente, protetto contro lo Stato ed il datore di lavoro), anche uno spazio coperto dalla libertà di sciopero (come tale lecito penalmente ma non civilmente, garantito rispetto allo Stato ma non al datore di lavoro).
La conclusione è una sentenza di accoglimento parziale “manipolativa”, che ritaglia nell’art. 503 cod. pen. un disposto meno esteso, destinato sopravvivere. Secondo tale disposto resta reato a tutt’oggi una duplice situazione:
-in relazione allo scopo, lo sciopero che “sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale”: cioè, sembrerebbe, quello “rivoluzionario”, inteso a rovesciare il sistema economico-sociale esistente, ancor prima del relativo regime costituzionale.
-in relazione al modo, lo sciopero che “per il suo modo d’essere, oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento diretto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti o poteri nei quali si esprime direttamente od indirettamente la sovranità popolare”.
È la sent. n. 165/1983 -relativa all’art. 504 cod. pen., chiamato in causa con riguardo ad uno sciopero diretto contro un mandato di cattura- a costituire l’ultima parola a tutt’oggi. Qui la Corte Costituzionale sembra limitarsi ad estendere argomentazioni e conclusione della sentenza precedente.
- SCIOPERO ED EFFETTI LEGALI
In tema di effetti legali dello sciopero, il primo e principale problema è costituito dalle ricadute sui rapporti di lavoro in essere fra datore e i suoi dipendenti.
a) Gli effetti essenziali sui rapporti dei dipendenti attualmente scioperanti possono essere così schematicamente riassunti:
a1) L’esercizio del diritto di sciopero produce la sospensione dell’obbligazione lavorativa, con correlativa perdita della retribuzione. Da una parte, c’è la sospensione dell’obbligazione lavorativa. Secondo l’opinione congeniale alla configurazione dello sciopero come diritto assoluto, qui condivisa, è una conseguenza “legale” dell’abbandono del lavoro.
Dall’altra parte segue la correlativa perdita della retribuzione, cosa spiegabile ancor prima in chiave pratica che giuridica. La giustificazione giuridica corrente fa perno sulla natura contrattuale-sinallagmatica del rapporto di lavoro: una volta venuta meno la prestazione lavorativa, non può sopravvivere la controprestazione retributiva, salvo esplicita previsione contraria. Sembrerebbe del tutto scontato che la trattenuta della retribuzione debba essere proporzionata all’effettiva durata dell’astensione.
Ma così non è stato, specie nell’impiego pubblico con riguardo al cd. sciopero breve, cioè inferiore all’orario giornaliero.
a2) L’esercizio del diritto di sciopero produce, però, una sospensione relativa, non assoluta del rapporto: ristretta al sinallagma obbligazione lavorativa-retribuzione, non estesa oltre, anche all’anzianità di servizio. Dunque, questa decorre durante lo sciopero, a tutti gli effetti legali e contrattuali: promozioni, periodi di comporto, ferie retribuite, termini di preavviso, tredicesima, premio di produzione, scatti di anzianità, trattamento di fine rapporto.
a3) L’esercizio del diritto di sciopero riesce protetto rispetto a qualsiasi atto o comportamento del datore di lavoro, precedente, contemporaneo, successivo allo sciopero medesimo, che sia tale da apparire soggettivamente od anche solo oggettivamente discriminatorio.
Un cenno speciale merita: il crumiraggio che consiste nel non scioperare, ed è necessaria qualche distinzione: prima fra crumiraggio “diretto” ed “indiretto”; poi, relativamente a quest’ultimo (ovvero crumiraggio indiretto) fra crumiraggio “interno” ed “esterno”.
Il crumiraggio “diretto” è quello praticato dei dipendenti di un dato complesso, che non intendono scendere in sciopero, bensì svolgere il loro normale lavoro. Invece, il crumiraggio “indiretto” è quello attuato sostituendo gli scioperanti con altri dipendenti spostati provvisoriamente dal loro normale lavoro (“crumiraggio interno”) e/o con altri lavoratori assunti transitoriamente ( “crumiraggio esterno”).
b) Passando oltre, c’è da rilevare come l’esercizio del diritto di sciopero finisca per avere riflessi anche sui rapporti dei dipendenti attualmente non scioperanti, pur essendo in corso uno sciopero. Astrattamente possono distinguersi due ipotesi: di sciopero condiviso e di sciopero non condiviso.
b1) La prima ipotesi è quella relativa al potere imprenditoriale di non accettare e retribuire il lavoro messo negli intervalli di uno sciopero a singhiozzo e nei reparti aveva volta a volta non interessati da uno sciopero a scacchiera, nonché nei tempi di riavvio dell’impianto in lavorazioni a ciclo continuo od integrale interessate da uno sciopero. Secondo la prevalente giurisprudenza della Cassazione, anche di fronte ad uno sciopero pienamente legittimo il datore è facoltizzato a non accettare e retribuire il lavoro offertogli in presenza di un motivo legittimo, ed avrebbe un tale motivo esclusivamente quando lo sciopero renda “impossibile” impiegare i lavoratori resisi disponibili.
b2) La seconda ipotesi è quella relativa al potere imprenditoriale di non accogliere e ricompensare il lavoro reso disponibile da lavoratori che rimangono estranei allo sciopero, semplice od articolato: perché dissentono o perché non ne sono coinvolti.
- SCIOPERO E ALTRE FORME DI LOTTA SINDACALE
Lo sciopero è solo una species del genus lotta sindacale.
È bene, però, sgombrare preliminarmente il terreno da qualche tipo di lotta che costituisce vero e proprio sciopero. È il caso anzitutto dello sciopero cd. bianco, cioè attuato senza un contestuale abbandono del posto o comunque del luogo di lavoro: per renderlo più efficace, col mantenere compatto il personale scioperante, ostacolare il crumiraggio, accrescere l’impatto disorganizzativo.
È anche il caso dello sciopero cd. dello straordinario, cioè eseguito come rifiuto collettivo di prestare lo straordinario richiesto dal datore di lavoro ai sensi del contratto collettivo.
Resta ora da considerare una varia tipologia costituita non da un’astensione dal lavoro, ma da una prestazione quantitativamente o qualitativamente diversa da quella pretesa del datore di lavoro etichettata come non collaborazione od ostruzionismo: cioè in sostanza un’attività lavorativa rallentata, con riduzione dei ritmi od introduzione di pause maggiori o nuove; ovvero modificata, con inosservanza dei criteri direttivi prefissati; ovvero ristretta, con esecuzione di alcune mansioni primarie, ma non di altre sussidiarie.
Sul finire del decennio ‘70, in cui si è fatto ricorso al cd. blocco o sciopero delle mansioni, quale rifiuto collettivo di eseguire certe mansioni considerate inferiori o superiori alle qualifiche e classificazione attribuite; e al cd. sciopero del rendimento o del cottimo, quale rifiuto collettivo di osservare determinate cadenze ritenute eccessive.
Una parola a proposito di qualche tipo di lotta, battezzata sciopero, ma attuata in maniera esattamente opposta ad un’astensione dal lavoro. È il caso del cd. sciopero pignolo, consistente nell’adempimento del compito prestabilito con un rispetto rigoroso o pedante del regolamento lavorativo, normalmente seguito in modo semplificato.
C’è poi, il cd. sciopero alla rovescia, dato dallo svolgimento di un lavoro non richiesto o addirittura vietato dal proprietario o imprenditore.
Da ultimo, sempre quale azione collettiva effettuata lavorando, si segnala la sperimentazione di forme di cd. sciopero virtuale, con destinazione della retribuzione a scopi solidaristici.
- PICCHETTAGGIO, OCCUPAZIONE D’AZIENDA, BOICOTTAGGIO, SABOTAGGIO
Il picchettaggio riveste da sempre un ruolo importantissimo nello svolgimento e nel successo dello sciopero e consiste in un raggruppamento più o meno folto di lavoratori, dipendenti delle azienda in sciopero o provenienti da altra azienda, che stazionano vicino o di fronte ai cancelli od agli ingressi per dissuadere, disturbare, bloccare gli eventuali crumiri. Come ovvio il problema nasce con riguardo non al picchettaggio pacifico, consistente in una pur vivace opera di persuasione, bensì a quello “violento”, variante da una resistenza passiva, quale realizzabile con la cd. barriera umana, ad una vera e propria attività violenta, fatta di minacce, percosse ecc.
Un tipo particolare di picchettaggio è costituito dal “blocco delle merci”, caratterizzato da un suo peculiare svolgimento ed obiettivo. Qui un gruppo di lavoratori, stazionante di fronte ai cancelli o agli ingressi, tende ad evitare spese l’uscita delle merci già prodotte.
Secondo la nozione comune, l’occupazione d’azienda è una forma di lotta costituita dall’entrata e/o permanenza nell’azienda di tutta o parte della forza lavoro ivi occupata, con astensione dell’attività lavorativa. Presidiare notte e giorno l’azienda serve, in particolare, a togliere l’iniziativa alla direzione, allorché voglia procedere o proceda ad una serrata o ad una riduzione/ liquidazione dell’attività produttiva. E può servire, in generale, a canalizzare la tensione della manodopera, nonché a sensibilizzare l’opinione pubblica e l’autorità pubblica, in presenza di una grave crisi occupazionale.
Qui la questione è data dall’esistenza di una disposizione quale l’art. 508, comma 1, c.p., che configura come ipotesi delittuosa l’invasione od occupazione di una altrui azienda agricola o industriale, effettuata “con il solo scopo di impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro”. È vero che tale norma è stata considerata abrogata o comunque inapplicabile in tutto o in parte da una consistente dottrina, nonché inapplicata in un modo o in un altro da una significativa giurisprudenza. Ma è vero anche che essa è stata tenuta ferma dalla Corte di Cassazione e dichiarata costituzionalmente legittima dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza 220/1975.
Il boicottaggio è di per sé mezzo di lotta di carattere generale. Qui interessa quello praticato dai lavoratori contro datori di lavoro, come strumento di lotta sindacale-politica.
Secondo l’art. 507 cod. pen. è punibile chiunque “per uno degli scopi indicati negli articoli 502, 503, 504, 505, mediante propaganda o valendosi della forza e autorità di partiti, leghe o associazioni, induce una o più persone a non stipulare patti di lavoro o a non somministrare materie o strumenti necessari al lavoro, ovvero a non acquistare gli altri prodotti agricoli o industriali”. Investita della relativa questione di costituzionalità, la Corte ha dichiarato tale norma solo parzialmente legittima, con la sentenza n. 84/1969.
Secondo la Corte, l’incriminazione del boicottaggio sarebbe legittima, eccezione fatta per l’ipotesi in cui venga attuato con una mera attività di propaganda, dato che quest’ultima resta sempre coperta e protetta dalla libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 della Costituzione.
Il sabotaggio come previsto e punito dall’art. 508, 2º comma, c.p., costituisce un danneggiamento “qualificato”, sia per il requisito soggettivo del dolo specifico (di impedire e turbare il normale svolgimento del lavoro), sia per il requisito oggettivo del peculiare carattere dei beni (edifici, macchine, scorte, apparecchi e strumenti produttivi).
La Corte, con la stessa sent. n. 220/1975, con la quale ha dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 508, 1°comma, c.p., dettato in tema d’occupazione, ha dichiarato ugualmente tale (cioè legittimo) anche il 2° comma, relativo al sabotaggio.
C. LA SERRATA
- IMPORTANZA, TIPOLOGIA, EVOLUZIONE DELLA SERRATA
Tipico mezzo di lotta padronale è la serrata, la quale è costituita da una chiusura od interruzione temporanea dell’attività aziendale, totale o parziale, nonché dal rifiuto di accettare e retribuire le prestazioni di lavoro, attuata da una sola o da più imprese, con finalità di pressione e di lotta.
La serrata individuale o collettiva è, come emerge dalla definizione stessa, eseguita da una sola o da più aziende, concordemente e/o contestualmente fra loro; la serata sospensiva o risolutiva è realizzata tramite la mera sospensione o, addirittura, la cessazione dei rapporti di lavoro in essere; la serrate offensiva o difensiva consiste in una manovra per anticipare e bruciare l’iniziativa avversaria o una misura per rispondere ad una lotta già intrapresa.
Il Codice penale prevede negli stessi art. 502-505 i vari reati di serrata, oltre che di sciopero, distinti in relazione alle finalità perseguite: nell’art. 502, 1°comma, la serrata per fini contrattuali; nell’art. 503, la serrata per fini non contrattuali; nell’art. 504 la serrata di coazione alla pubblica autorità, dell’art. 505 la serrata scopo di solidarietà e di protesta. Chiude l’elenco, nell’art. 506, la serrata di esercenti di piccole industrie e commerci.
Nella Costituzione si menziona esplicitamente lo sciopero, ma non si fa parola della serrata. Da qui deriva che la serrata non costituisce comunque un diritto. Che la serata non costituisca comunque un diritto risulta con evidenza non solo dalla lettera, ma anche dalla ratio della nostra Carta costituzionale.
- LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE: LA RILEVANZA PENALE DELLA SERRATA
La linea tecnico-operativa prescelta dalla Corte costituzionale è la stessa già vista a proposito dello sciopero, sia pur con una prospettiva diversa, che per la serrata rimane quella di una regolazione “diretta” della sua configurabilità penale, senza guardar oltre, ad una regolazione “indiretta” della sua rilevanza civile.
La sentenza più importante resta a tutt’oggi la n. 29 del 1960, già vista trattando dello sciopero. L’argomentazione è fondata su un’interpretazione correlata degli art. 39, 1° comma 40 Cost. La tesi individua nell’art. 39 1°comma, la tutela non di una “mera libertà organizzativa”, ma di “una libertà di azione sindacale”, relativa così all’organizzazione come ai mezzi di lotta sindacale di entrambe le parti contrapposte, cioè lavoratori e datori; e ravvisa nell’altro disposto la concessione di un plus a favore del mezzo di lotta sindacale tipico dei lavoratori. In tal modo lo sciopero diviene un “diritto”, un comportamento penalmente e civilmente legittimo, mentre la serrata rimane una mera “libertà”, un comportamento solo penalmente lecito. Tale linea conduce ad una dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 502, 1° e 2° comma, c.p., cioè del divieto penale della serrata e rispettivamente dello sciopero a fini contrattuali, per contrasto con gli articoli 39 e 40 della Costituzione.
Se la serrata a fine contrattuale costituisce una libertà, che dire della serrata a fine non contrattuale? Secondo quanto pare deducibile dalla sent. n. 29/1960, solo la serrata a fine contrattuale costituisce una libertà, sicché, una volta eliminato il divieto penale di cui all’art. 502, 1°comma, c.p., ogni altro divieto rimarrebbe al suo posto.
Data la delicatezza della materia sembra opportuno tener ferma la sola conclusione certamente raggiunta dalla Corte:
a) esiste una posizione costituzionalmente protetta, etichettabile come “libertà”, intesa quale semplice non incriminabilità penale, con conseguente illegittimità della normativa che la reprime;
b) tanto che ai sensi dell’art. 39, comma 1°, Cost., è possibile parlare di una libertà di serrata, oltreché di sciopero, peraltro quest’ultima subito elevata, ai sensi del successivo art. 40, a diritto;
c) la libertà di serrata così protetta è senz’altro quella a fine contrattuale, cioè attuata per resistere alla richiesta di una modifica migliorativa o per ottenere l’adesione ad una modifica peggiorativa della disciplina collettiva vigente;
d) la disposizione penale senz’altro cancellata è quella dell’art. 502, comma 1°, c.p., appunto relativa alla serrata a fine contrattuale.
In realtà c’è un’altra disposizione penale in materia, l’art. 506. c.p., che riguarda una fattispecie tutt’altro che peculiare, cioè la serrata dei piccoli esercenti privi di lavoratori dipendenti, tale da non coinvolgere direttamente prestatori subordinati. La Corte con sent. 222/1975 illegittima tale norma, limitatamente alla serrata di protesta attuata da tali piccoli esercenti, privi di dipendenti, contro fatti o provvedimenti incidenti sulla loro attività economica.
- LA RILEVANZA CIVILE DELLA SERRATA. LA C.D. SERRATA DI RITORSIONE
Si è già detto che la serrata, quale chiusura o interruzione temporanea dell’attività aziendale, con finalità di pressione e di lotta, non rappresenta oggi né potrebbe rappresentare domani un diritto, quand’anche essa non sia un illecito penale, resta pur sempre un illecito civile, un comportamento in violazione del contratto di lavoro.
Al riguardo non pare possibile distinguere fra serata risolutiva e sospensiva. Se il datore di lavoro pensasse di far precedere, accompagnare, seguire la chiusura o interruzione temporanea dell’attività aziendale dal licenziamento collettivo del personale opererebbe in maniera illecita.
Se, poi, il datore di lavoro ritenesse di procedere alla chiusura o interruzione dell’attività aziendale, senza alcun previo, contestuale o successivo licenziamento collettivo del personale, come usuale nel caso di serrata, allora provocherebbe una sospensione di fatto delle prestazioni lavorative, ma non una sospensione di diritto dei rapporti di lavoro in essere. Terrebbe, ancora, un comportamento in violazione dei doveri e obblighi derivantigli dai contratti di lavoro conclusi.
Secondo tale prospettiva, la violazione consiste nel rifiuto esplicito o implicito di ricevere le prestazioni lavorative dei propri dipendenti, a prescindere da quel che pur normalmente consegue, cioè il mancato pagamento dei relativi stipendi e salari. Per usare l’appropriata terminologia giuridica, essa costituisce un’ipotesi peculiare di mora del creditore, ai sensi dell’art. 1206 cod. civ.: il creditore/datore di lavoro, senza giustificato motivo, rifiuta di accettare le prestazioni lavorative dei propri debitori/lavoratori o non coopera all’effettuazione delle medesime.
Sposare questa tesi, vuol dire ovviamente respingere l’altra, per la quale la violazione consisterebbe solo nel mancato pagamento dei relativi stipendi e salari, cioè nell’inadempimento degli obblighi retributivi, sicché al limite, un datore potrebbe chiudere o interrompere la sua attività, purché continuasse a retribuire regolarmente i suoi dipendenti.
Un’attenzione particolare merita la cd. serrata di ritorsione, cioè di reazione a forme di lotta particolarmente incisive per le modalità attuative o per le realtà produttive investite.
Essa è venuta ad assumere una duplice forma:
a) anzitutto ha preso la forma di risposta ad uno sciopero articolato. Tale serrata costituisce violazione dell’esercizio del diritto di sciopero, dato che quello attuato in modo articolato, è di per sé legittimo; pertanto il sindacato può ricorrere alla tutela di cui all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori. Ciò vale qui fino al punto in cui lo sciopero posto in essere rimane legittimo, vale a dire non espone a rischio o a danno qualche valore o bene preminente, quale la vita e l’integrità psicofisica dei dipendenti e dei terzi, nonché l’impresa come “organizzazione istituzionale”. Nel limite in cui tale rischio o danno appaia effettivo ed evitabile con una chiusura o interruzione dell’attività aziendale, questa non più integra gli estremi di un’attività antisciopero e di una mora del creditore;
b) in secondo luogo, ha preso la forma di un rifiuto del datore di lavoro di accogliere e retribuire il lavoro offerto da personale attualmente non scioperante, in occasione di uno sciopero pur pienamente legittimo. Secondo la tesi dominante questa serrata non configurerebbe né attività antisciopero né mora del creditore, ogniqualvolta il lavoro reso disponibile risultasse non proficuo secondo lo standard normale e che risultino non solo non proficuo, ma in tutto e per tutto non utilizzabile.
Alessandro Saggini
(LucidaMente, anno XV, n. 176, agosto 2020)