Un libro che analizza spietatamente la nostra società e i suoi simulacri: “Critica della ragion cinica” (Raffaello Cortina Editore) di Peter Sloterdijk
Critica della ragion cinica: il libro è appena stato ripubblicato in Italia (pp. 388, € 29,00, Raffaello Cortina Editore), ma la prima edizione risale a parecchi anni fa (1983), in Germania, dove diede adito a considerazioni e dibattiti di ampio interesse, favoriti dall’estrosità dell’autore, il filosofo e saggista tedesco Peter Sloterdijk, considerato uno tra i più insigni esponenti della ricerca filosofica contemporanea.
Nonostante il richiamo nel titolo, non c’è alcuna dipendenza dalla Critica della ragion pura di Immanuel Kant. Kant si pone il quesito di cosa possa (debba) conoscere l’Uomo per delineare i termini della sua esistenza. Impresa non facile e sottoposta ai limiti dell’immanenza. La critica kantiana sollecita l’insistenza della domanda. Si tratta di una domanda ricorrente, “a priori”, condizionata comunque dall’esperienza finita che pur s’introduce nella verità universale. Eppure già è tanto se l’Uomo riesca ad avere coscienza non che il mondo esiste, ma di “come” esiste.La “conoscenza” kantiana separa fenomeno da noumeno. Siamo molto distanti, a mio avviso, dal materialismo odierno che trascina a sintesi contorta fenomeno e noumeno, dove causa ed effetto si confondono, dove è irrisolta la disputa sul relativismo. Che cosa rimane nella pratica corrente della speculazione kantiana? Forse soltanto la “sensibilità” come elemento di selezione dell’individuo. Ma ciò si scontra con la presunta tersità dell’“a priori”. Relativismo e apriorismo possono essere conciliabili se si osservano laicamente (cioè attraverso la facoltà del dubbio) i caratteri distintivi della necessità e della universalità.
La Critica della ragion cinica è comunque farina di un altro mulino. Non tragga in inganno il riferimento al cinismo, che oggi è sinonimo di indifferenza, disprezzo, spregiudicatezza. L’ignoranza e l’involuzione del linguaggio, nonché le acquisizioni metaforiche, stravolgono i significati. A Pompei i falli che si vedono sui muri delle case liberate dalle ceneri vesuviane hanno indotto ad affibbiare agli antichi romani l’etichetta di libertini, se non di pervertiti. È interpretazione semplicistica, alla quale ha dato una grossa mano il moralismo curiale della Chiesa. Si tratta invece di una simbologia auspicale, celebrativa della fecondità, inneggiante alla fertilità proficua di frutti abbondanti non soltanto materiali ma anche spirituali.
Il cinismo classico era invece una scuola filosofica d’ispirazione socratica, latrice di nobili valori, in particolare dell’eliminazione dei desideri che compromettono l’autonomia della spiritualità; in questo, similmente ad alcune dottrine orientali. La virtù è la meta del cinismo, il target è la saggezza. I cinici furono, per così dire, gli adepti della contestazione globale. Si chiesero se fossero vera civiltà lo Stato, l’assetto sociale, il matrimonio, la ricchezza. Furono precursori del modus vivendi di san Francesco d’Assisi: ostentavano miseria, estrema frugalità nel cibo e povertà nel vestire. Scherzando si potrebbe dire che Prada, Zara, Versace, pare anche Marchionne, li detestino tuttora fortemente… Leroy Merlin invece forse li apprezza: se ci fossero oggi tanti Diogene a comperare legnami, ferri, seghe, pialle per costruire migliaia di botti, sarebbe l’epifania del fai-da-te!…
Diogene (quello di Sinope, che tra l’altro predicava la comproprietà delle donne e potrebbe essere ben visto da Berlusconi) era cosmopolita e minimalista. Dedicò la vita alla diffusione del cinismo. Si racconta che vivesse in una botte e fosse imperturbabile di fronte ai potenti, al punto da dire ad Alessandro il Grande di mettersi da parte per non fare ombra. Roba da fare impallidire i “vaffa…” di Grillo! Ma torniamo a Sloterdijk. Il suo cinismo non è dottrina, è piuttosto pretesto per accusare la cinica (nell’accezione attuale) società moderna, avvezza a rimescolare liquami maleodoranti pur di conseguire successo e potere. Una siffatta società è spiritualmente abbruttita e culturalmente menomata, insidiata da donne e uomini frustrati e mediocri.
Il nostro Autore, filosofo perspicace e smaliziato, rivolta la società come un calzino usato e ne mette a nudo rattoppi, buchi e sozzure. Lo fa con abilità di scrittore scafato che vuole attrarre non il lettore, bensì tanti lettori, alternando con intelligente dosaggio provocazione e licenza satirica. E addentrandosi appieno in ragionamenti politici. Insomma, egli ripercorre, a tratti, le orme di tanti sapienti, padri o figli – o alcuni solamente zii – dell’attuale decadenza dominante. Il Nostro, quando occorre, sa però volare alto e si esibisce nella sagace analisi che gli permette di censurare i simulacri della nostra società: l’ambiguità politica, i mezzi d’informazione, il sesso, il dissesto sociale. È impossibile dargli torto.
La diagnosi è disastrosa. La terapia è la costruzione di un nuovo “cynismus”. Ma – mi domando – quali presupposti prevarranno? Quelli letterario-filosofici somministrati dal nostro Autore, o quelli (per esempio) del banchiere d’assalto, egoista, arrogante e finanziariamente apolide? Oppure quelli politico-rottamatori ispirati or ora da Matteo Renzi? Speriamo bene! Ma resta il timore che la prognosi possa essere infausta.
Franco Franchi
(LucidaMente, anno IX, n. 100, aprile 2014)
L’affermazione progressiva del sistema capitalistico della produzione induce una svolta volontaristica nella società umana. Il profitto determina, infatti, la desertificazione dei valori etici che sono alla base della società sorta dalla catarsi protestante ed illuministica, l’assenza di una visione culturale globale capace di orientare gli uomini in senso razionalistico.
Le odierne concentrazioni capitalistiche stanno alla società civile così come il latifondo romano, prima, ed il feudo, poi, si posero per la società europea del tempo. E’ immanente a tali concentrazioni una vocazione assolutistica, una vocazione al progressivo svilimento degli Human Rights in quanto limitativi della legge del massimo profitto.
Il nichilismo contemporaneo è il portato dell’affermazione del sistema capitalistico della produzione, della conseguente elevazione del profitto a categoria ordinante il complesso delle relazioni umane, del conseguente asservimento della scienza e della cultura alle sue esigenze economiche. La crescente affermazione del “materialismo”, del “relativismo etico”, la crisi morale dello Stato, non sono, dunque, che sovrastrutture del sistema capitalistico della produzione, sono la conseguenza dell’etica economica informata al primato del profitto, della corrispondente mercificazione dei rapporti umani, del corrispondente asservimento della politica alla logica della accumulazione capitalistica, della dissociazione tra homo oeconomicus e homo moralis, ovvero, ciò che non cambia, del tendenziale risolversi di quest’ultimo nel primo.
Così come il latifondo romano, connesso alla cultura del nichilismo, indusse il transito al cristianesimo, la decadenza e, quindi, la dissoluzione della società civile, analogamente, il feudalesimo capitalistico, connesso al nichilismo, sta inducendo un analogo processo di disgregazione della società occidentale. Un momento di ulteriore riscontro di questa analogia è costituito dalla tendenziale riattribuzione al cattolicesimo di un rilievo giuspubblicistico, come significativamente attestato dalla recente stretta di mano tra il pontefice ed Obama.
L’“Eclisse della ragione” non può che indurre la cultura della violenza e il riemergere dei fondamentalismi, il passaggio, pertanto, all’assolutismo politico e religioso.