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Sant’Elena, 5 maggio 1821: la morte di Napoleone, il «piccolo caporale» che stupì il mondo

A duecento anni dalla scomparsa il ricordo del celebre e controverso statista di origini corse che con metodi dispotici modernizzò la Francia e conquistò l’Europa. Le illazioni sul suo avvelenamento

Giuseppe Licandro by Giuseppe Licandro
3 Maggio 2021
in STORIA
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A duecento anni dalla scomparsa il ricordo del celebre e controverso statista di origini corse che con metodi dispotici modernizzò la Francia e conquistò l’Europa. Le illazioni sul suo avvelenamento

Il 5 maggio 1821 si spense a Longwood ­– nell’isola di Sant’Elena – Napoleone Bonaparte, una delle figure più celebri e controverse della storia moderna. Dello statista di origini corse fece un mirabile ritratto Alessandro Manzoni nell’ode Il cinque maggio, riassumendone l’intera parabola politica in un’unica strofa: «Tutto ei provò: la gloria / maggior dopo il periglio, / la fuga e la vittoria, / la reggia e il triste esiglio: / due volte nella polvere, / due volte sull’altar». Il poeta milanese pose anche ai lettori un noto interrogativo al quale tuttora non è facile rispondere: «Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza».

Napoleone nacque ad Ajaccio in Corsica il 15 agosto 1769 in una famiglia nobiliare di lontane ascendenze toscane, il cui cognome originario era Buonaparte (poi francesizzato in Bonaparte). Da ragazzo studiò al collegio francese di Autun, alla Scuola reale di Brienne-le-Château e alla Regia scuola militare di Parigi, divenendo sottotenente di artiglieria a sedici anni. Nel 1791 fu promosso ufficiale e trascorse alcuni periodi di congedo nell’isola natale, sostenendo Pasquale Paoli, capo del movimento indipendentista corso. Nel 1793 tuttavia si accostò ai giacobini e fuggì con la famiglia in Francia dove pubblicò il dialogo La cena di Beaucaire, un’apologia della rivoluzione repubblicana. Fu poi nominato comandante di una batteria dell’artiglieria di stanza a Tolone e risultò determinante per la riconquista della città presidiata dagli inglesi, venendo promosso generale di brigata. Alla caduta di Maximilien Robespierre (27 luglio 1794) fu incarcerato per una decina di giorni, ma venne poi rimesso in libertà grazie all’intervento dell’amico Paul Barras – membro del Direttorio – e inviato a combattere in Vandea: Bonaparte però non obbedì agli ordini e rimase a Parigi, venendo pertanto radiato dall’esercito. La sua vita mutò improvvisamente il 5 ottobre 1795, allorché Barras lo reintegrò nei ranghi militari e gli affidò la repressione di una rivolta monarchica. Egli non esitò a cannoneggiare i ribelli e, salvata la Repubblica, ottenne la promozione a generale di divisione e in seguito a comandante in capo dell’Armata dell’interno.

In quel periodo Napoleone conobbe e sposò una vedova creola ex amante di Barras, Giuseppina di Beauharnais, l’influenza della quale fu determinante per la sua nomina a comandante in capo dell’Armata d’Italia (2 marzo 1796). Colui che i soldati avevano definito scherzosamente il «piccolo caporale» concluse trionfalmente la Campagna d’Italia e divenne un eroe nazionale, riuscendo – dopo l’infruttuosa Campagna d’Egitto (1798-99) – ad assumere il potere in Francia grazie al colpo di stato del 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799). Bonaparte fu poi eletto tramite dei plebisciti primo console (1800), console a vita (1802) e imperatore dei francesi (1804), riuscendo a imporre l’egemonia della Francia sul continente europeo in virtù di una straordinaria serie di imprese militari. L’impero napoleonico toccò il suo apogeo nel 1812, allorché comprese al suo interno Belgio, Francia, Olanda, Svizzera e gran parte di Germania, Italia, Polonia e Spagna. A decretarne la rapida dissoluzione furono la disastrosa Campagna di Russia (giugno-dicembre 1812) e la sconfitta di Lipsia (16-18 ottobre 1813) che portò all’esilio di Bonaparte presso l’isola d’Elba. L’imperatore riuscì ben presto a rientrare in patria (1° marzo 1815) e a riprendersi il trono, ma fu definitivamente battuto dagli anglo-prussiani nella sfortunatissima battaglia di Waterloo (18 giugno 1815) e relegato nell’isola di Sant’Elena, dove rimase fino alla fine dei propri giorni.

La morte di Bonaparte è stata tradizionalmente attribuita a un tumore allo stomaco che lo colpì negli ultimi anni di vita. Non sono tuttavia mancate le teorie complottiste che, attribuendone il decesso all’ingestione di arsenico, hanno gettato un’ombra di mistero sulla sua scomparsa. A sostenere per primo questa tesi fu Louis Marchand – cameriere personale di Bonaparte a Sant’Elena – nei suoi diari pubblicati postumi nel 1955. L’ipotesi dell’avvelenamento è stata avvalorata dagli studi del tossicologo Pascal Kintz che nel 2001 e nel 2003 ha riscontrato nei capelli e nel midollo osseo di Napoleone un tasso di arsenico superiore alla norma. Il possibile killer è stato indicato dagli storici David Hamilton–Williams e René Maury nel conte Charles Tristan di Montholon, responsabile delle cantine di Sant’Elena e presunto agente segreto al servizio dei Borbone (vedi Aulo Gasparri, L’assassino di Napoleone, in Lo scoglio. Elba ieri, oggi, domani, III quadrimestre, anno XII, 1994, p. 21). È stata comunque ipotizzata anche un’intossicazione casuale dovuta all’eccessivo consumo da parte dell’ex imperatore di orzate di mandorle amare (contenenti arsenico) e all’assunzione di calomelano, un composto a base di sali di mercurio somministratogli come diuretico e lassativo (vedi Teorie alternative sulla morte di Napoleone, in it.wikipedia.org).

La tesi della morte per tumore è stata in seguito riproposta in un articolo pubblicato nel 2007 sulla rivista Nature Clinical Practice Gastroenterology and Hepatology da un gruppo di ricercatori che ha confermato come l’ex imperatore sia stato ucciso proprio da un cancro ulceroso allo stomaco indotto da un microrganismo, l’Helicobacter pylori (vedi Robert Genta, Andrea Kopp Lugli, Alessandro Lugli, Gad Singer, Luigi Terracciano, Inti Zlobec, Napoleon Bonaparte’s gastric cancer: a clinicopathologic approach to staging, pathogenesis, and etiology, in Nature Clinical Practice Gastroenterology and Hepatology, n. 4, 2007, pp. 52-57). Questa diagnosi è stata ribadita da uno studio del 2008 dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che ha preso in esame alcune ciocche di capelli di Napoleone risalenti a vari periodi della sua vita, nonché i resti del figlio e della prima moglie. Le analisi hanno infatti evidenziato la presenza di tassi elevati di arsenico in tutti i campioni esaminati: da questo dato si evince che gli individui dell’epoca erano assuefatti all’arsenico e che per uccidere un uomo occorreva una quantità di veleno maggiore di quella rinvenuta nei reperti (vedi Alessia Manfredi, Napoleone non fu avvelenato. La conferma dei fisici nucleari in www.repubblica.it; Laura Tasca, Helicobacter pylori: l’assassino di Napoleone, in www.microbiologiaitalia.it).

La storiografia napoleonica è stata spesso viziata da intenti denigratori o agiografici. Uno dei primi storici a studiare obiettivamente Bonaparte è stato Adolphe Thiers, che ha espresso un giudizio sostanzialmente negativo sul suo operato: «Quest’uomo grande e fatale, dopo aver raggiunto la perfezione durante il Consolato, […] alla repubblica universale fa succedere la monarchia universale, e lascia dietro di sé immense calamità» (Storia del Consolato e dell’Impero, Le Monnier, 1845). Anche Luigi Salvatorelli ha criticato il neocesarismo napoleonico, valutandolo alla stregua di «un assolutismo illuminato attraverso l’onnipotenza della monarchia amministrativa […], ma senza lo spirito umanitario e liberale» (Profilo della storia d’Europa, Einaudi, Torino 1944). Gaetano Salvemini invece ha apprezzato le capacità politiche dello statista di Ajaccio: «Il genio di Napoleone […] ottenne dalla fusione fra l’antico e il moderno un edificio di cui solo un secolo dopo dovevano essere demolite le basi» (La rivoluzione francese, Laterza, Bari-Roma 1954). D’accordo con lui si è dichiarato Georges Lefebvre che ha evidenziato come l’Impero napoleonico abbia favorito il progresso sociale «distruggendo l’antico regime e introducendo i principi dell’ordinamento moderno» (Napoleone, Laterza, Bari-Roma 1962).

Il regime bonapartista presentò degli indubbi elementi autoritari, impose ai francesi un ventennio di guerre sanguinose e non fu tenero nei confronti dei popoli sottomessi: basti pensare al furto di opere d’arte perpetrato ai danni degli altri stati o alla cessione della Repubblica di Venezia all’Austria col Trattato di Campoformio (1797). Napoleone, tuttavia, fu un despota differente dai sovrani dell’Ancient regime e ­– a nostro avviso ­– ebbe anche qualche merito, soprattutto in campo economico-sociale. Il Codice napoleonico (1804), pur contenendo forti limitazioni dei diritti civili, fece proprie alcune conquiste della Rivoluzione francese: sancì l’uguaglianza giuridica dei cittadini, garantì le libertà economiche, introdusse il matrimonio civile e il divorzio, abolì ogni residua forma di privilegio feudale in nome della meritocrazia. Napoleone si fece dunque promotore di un nuovo modello di monarchia che traeva la propria legittimazione non dal diritto divino bensì dal sostegno dell’esercito, della ricca borghesia e dei ceti popolari. Ciò – in conclusione – ci induce a considerarlo come il primo leader politico moderno, al quale si sono ispirati tanti personaggi ambiziosi apparsi sulla ribalta della storia nei due secoli posteriori alla sua morte.

Le immagini: Jean-Pierre-Marie Jazet e Carl von Steuben, La morte di Napoleone a Sant’Elena (circa 1830-31, collezione di Villa Vigoni); Jacques-Louis David, L’incoronazione di Napoleone I (circa 1805, collezione del Museo del Louvre); François-Joseph Sandmann, Napoleone a Sant’Elena (circa 1820, Museo di Malmaison).

Giuseppe Licandro

(LucidaMente, anno XVI, n.185, maggio 2021)

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Tags: bonapartefranciamanzonirivoluzionesant’elenastoria
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