Nonostante gli impegni assunti, l’impatto ambientale della moda “veloce” è tuttora molto alto. E le multinazionali continuano a puntare ipocritamente su campagne di “greenwashing”
Nel 2017, quando il movimento Fashion Revolution stilò il suo primo Fashion Transparency Index, su 100 marchi di moda solo il 14% pubblicava l’elenco degli impianti di lavorazione e nessuna delle aziende (0%) quello dei fornitori di materiali grezzi. Oggi, dopo appena tre anni, tali percentuali sono salite rispettivamente al 24% e al 7%. Segno che la pressione dell’opinione pubblica ha spinto sempre più aziende alla tracciabilità delle proprie filiere produttive. Tuttavia, alcuni marchi puntano a dare di sé un’immagine ingannevole di basso impatto ambientale, un “ecologismo di facciata” definito “greenwashing”.
Alcuni obiettivi sono stati raggiunti proprio quest’anno, come la pubblicazione per la prima volta da parte di Benetton e H&M «di alcuni dei loro fornitori di materie prime». Il quadro dell’industria globale del fashion, però, è tutt’altro che idilliaco. A partire dal grande assente della campagna per la trasparenza dei fornitori: infatti, come si legge nel report Fashion Checker, il gruppo Inditex, che possiede – fra gli altri – Zara e Pull&Bear, «non fornisce alcuna informazione sulle fabbriche di fornitori e sui lavoratori dell’abbigliamento». Nessun privato cittadino può accedere agli elenchi dei fornitori Inditex. Nonostante ciò, i report aziendali abbondano di affermazioni come: «In un esercizio di responsabilità e trasparenza, condividiamo tutte le informazioni sulla nostra catena di fornitori con i nostri stakeholders. In questo modo, non solo rispettiamo il nostro impegno per la trasparenza, ma promuoviamo anche una gestione più sostenibile della catena di fornitura». In realtà, afferma Aruna Kashyap di Human Rights Watch, «la trasparenza dovrebbe essere la pietra angolare di ogni serio sforzo dei marchi per costruire una catena di approvvigionamento libera da abusi dei diritti umani».
Non è il caso di Inditex, dove solo il sindacato «IndustriALL ha accesso alla lista completa dei fornitori e delle manifatture». L’unico elenco pubblicamente consultabile riguarda le fabbriche coinvolte nel cosiddetto wet processing, ovvero le lavorazioni umide: parliamo però di appena 326 stabilimenti su 7.235 (dati 2018). Eppure, le cifre che la multinazionale spagnola diffonde sul proprio sito cercano di dimostrare una concreta attenzione alle «preoccupazioni dei clienti in relazione alla sostenibilità»: «Nel 2018 – si legge – abbiamo risposto a 42 richieste di informazioni dai nostri clienti». Un numero di per sé poco rilevante, se pensiamo che, in un anno, il gruppo ha realizzato 1,6 miliardi di prodotti (quasi quanto Adidas e OVS sommate insieme).
Ovviamente non tutti vengono venduti, ma appena il 3% (7 su 250) dei marchi analizzati da Fashion Revolution «ha rivelato […] il volume dei prodotti distrutti», i quali vengono «spesso inceneriti». Solo fra il 2013 e il 2017, ad esempio, H&M ha bruciato 60 tonnellate di vestiti nuovi e invenduti. La pubblicazione dei dati sui suppliers è una delle condizioni fondamentali per rendere i brand del fast fashion responsabili delle azioni dei loro fornitori, tanto sulle tematiche ambientali quanto sulle condizioni dei lavoratori. Ma non è certo la soluzione: come nota il network Clean Clothes Campaign, «i marchi che divulgano dati sulle fabbriche che utilizzano non sono migliori dei marchi che non lo fanno, non significa che i salari o qualsiasi altra condizione di lavoro siano migliori». È ciò che succede in concreto nel caso di Benetton o H&M, aziende in cui la trasparenza della supply chain non va di pari passo con un effettivo impegno per la tutela dei lavoratori; e questo ha inevitabili ricadute anche sulla sostenibilità ambientale del prodotto. «Benetton – si legge su Fashion Checker – non ha assunto alcun impegno […] per garantire un salario di sussistenza in tutta la sua rete di fornitori». I giudizi sono gli stessi nei confronti di H&M: non si hanno prove che «la società utilizzi un parametro di riferimento credibile per i salari reali».
Le statistiche che si ricavano analizzando la lista fornitori 2019 pubblicata da Benetton confermano la pressoché totale mancanza di tutele per i lavoratori: su 882 imprese fornitrici l’11% dichiara la presenza di un «contratto collettivo di lavoro» e appena il 3% la presenza di «trade unions». Il gruppo svedese H&M, da sempre molto attento alla trasparenza, è l’unico che totalizza un punteggio superiore a 70 nel Fashion Transparency Index 2020. H&M, infatti, pubblica sia l’elenco dei fornitori (manifattura e produzione) sia quello dei fornitori di secondo livello, per un totale di 4.260 aziende. A queste si aggiungono altre due imprese: la vietnamita Far Eastern Polytex e Li Peng Enterprise, con sede a Taiwan, le uniche (lo 0,05% del totale) classificate come «lavorazione della fibra (poliestere riciclato)».
Tale materiale plastico viene utilizzato nella linea “Conscious” del marchio svedese per «capi che – si legge sul sito – vengono creati con una piccola considerazione extra per il pianeta. Sono composti per almeno il 50% di materiali da fonti sostenibili – come […] il poliestere riciclato». Queste sono le uniche informazioni rilevanti che il consumatore riceve e, infatti, la collezione “Conscious” è stata oggetto di indagine da parte della Norwegian Consumer Authority; «dal momento che – ha dichiarato l’Authority – H&M non fornisce al consumatore informazioni precise sul motivo per cui questi vestiti sono etichettati come “Conscious”, concludiamo che ai consumatori viene data l’impressione che questi prodotti siano più “sostenibili” di quanto non siano in realtà». Inoltre, secondo uno studio pubblicato nel marzo 2020 dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il lavaggio di capi in poliestere «contribuisce all’inquinamento delle acque superficiali e marine». Infatti, dopo un solo ciclo in lavatrice, una maglietta realizzata con poliestere riciclato al 65% rilascia 640.000 microfibre tessili sintetiche. L’impatto delle fibre sintetiche sull’ecosistema marino è altissimo: una ricerca condotta dall’Università della California rivela che «le microfibre sintetiche costituirebbero il 90% dell’inquinamento da microplastica dell’Oceano Atlantico».
Considerando che «oltre la metà dei nostri indumenti è realizzata con tessuti sintetici», l’impatto è disastroso. Insomma, la scelta di puntare su capi sintetici, ancorché (in parte) riciclati, non sembra essere per niente “cosciente”. Alcuni impegni assunti delle aziende di moda a basso costo, certo, si sono tradotti in azioni concrete per aumentare la sostenibilità dei capi d’abbigliamento, in primis la rimozione delle sostanze chimiche pericolose dai processi produttivi nell’ambito della campagna di Greenpeace “Detox”. Nonostante ciò, l’impatto ambientale delle aziende di moda “veloce” è ancora troppo alto: il prelievo di acqua da parte di Inditex, secondo i dati Wikirate, è aumentato da 991,727 metri cubi nel 2012 a 1,18 milioni di metri cubi nel 2016. Nel solo 2018, la big spagnola ha consumato 4,07 milioni di gigajoule di energia da fonti non rinnovabili e prodotto 1,76 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica (CO2) in emissioni di tipo “Scope 3”, ovvero quelli legati, ad esempio, a trasporto e distribuzione. H&M e Benetton non sono certo da meno: la prima con emissioni di tipo “Scope 3” pari a 17,7 milioni di tonnellate equivalenti di CO2, la seconda con 1,31 milioni di metri cubi d’acqua di scarico prodotti nel 2019 e una percentuale di riciclo delle acque che raggiunge il 60% solo in alcuni impianti. Insomma, l’obiettivo di un fast fashion sostenibile sembra ancora lontano.
Questo articolo è estratto dal vol. 2 del Progetto Inquinanti, nato dalla collaborazione tra Scomodo. La rivista studentesca più letta d’Italia e Greenpeace Italia e distribuito in 15.000 copie.
Le immagini: a uso gratuito da pixabay.com.
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 181, gennaio 2021)