Tra chi chiude e chi no, chi fa smart working e chi rimane senza impiego: ecco la voce di tanti operatori del capoluogo emiliano
Nel 1981 l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, durante il messaggio di fine anno agli italiani, affermava: «Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo». Nel momento in cui questo articolo viene scritto, il 14 marzo 2020, quello che il governo dice al popolo italiano è: «Restate a casa».
Con il Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri) dell’11 marzo scorso, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dispone un quasi totale lock down dell’Italia fino al 25 marzo. Per evitare l’espandersi di quella che è stata definita dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) una pandemia e scongiurare il crollo del sistema sanitario nazionale, quello che ci viene chiesto è di limitare al massimo gli spostamenti ed evitare il contatto con le altre persone. In quest’ottica, i datori di lavoro sono invitati a favorire lo smart working e a incentivare l’uso di ferie e permessi. Nei casi in cui non si potesse evitare di recarsi sul posto di lavoro, si devono adottare misure anticontagio: rispettare la distanza minima di un metro e utilizzare i dispositivi di sicurezza. Se ogni situazione lavorativa fa storia a sé, la preoccupazione economica per questo momento di ferie forzate riguarda tutti. C’è chi, infatti, ha un nuovo impiego e non ha ancora maturato abbastanza ferie, o non rientra nelle categorie previste da Cassa integrazione ordinaria e straordinaria o Fis (Fondo d’integrazione salariale), oppure è un libero professionista e, semplicemente, se non lavora non guadagna.
Ci sono poi alcuni ambiti che da subito sono stati più colpiti, come lo spettacolo, la cultura e il turismo. Per avere un’idea di quello che sta succedendo nel mondo lavorativo, ecco qua le testimonianze di alcuni trentenni, residenti nel Bolognese, impiegati in diversi settori. Quella che segue vuole essere una sorta di fermo immagine, la storia di chi a casa c’è rimasto per forza e da subito, di chi ci vorrebbe stare ma non sa a quale titolo e di chi si è trovato a rimbalzare tra il sì, il no e il forse.
Questa è la vicenda di F., che lavora nei teatri come corista lirica: «Faccio una premessa: a seconda del tipo di teatro, ci sono due categorie di coristi. Se sei impiegato presso una fondazione lirica, ad esempio il Comunale di Bologna o la Scala di Milano, a cui si accede tramite concorsi, sei un dipendente a tempo indeterminato con uno stipendio fisso. Capita che ci siano audizioni per le aggiunte, ma nel caso si tratta di contratti a tempo determinato. L’altra specie sono i coristi dei teatri di tradizione, come quello di Ferrara, che non ha un coro stabile, ma cambia a seconda delle produzioni. Attualmente io sono reduce dalla stagione in alcuni teatri di tradizione, in cui ho lavorato con un contratto a tempo determinato. Ho terminato a dicembre, e da gennaio in poi il mio obiettivo era quello di fare delle audizioni per i mesi successivi. A fine febbraio ne avrei dovuta avere una, che naturalmente non si è fatta, i teatri sono stati chiusi e la produzione non è partita. Prima ero riuscita a farne un’altra per entrare come aggiunta a Piacenza, ed era anche andata bene, ma il momento del bisogno probabilmente non arriverà, anche perché per la maggior parte dei teatri la stagione termina a maggio. Ora sono disoccupata e non so fino a quando. Come me tanti altri si ritrovano in questa situazione perché, generalizzando, tutto il mondo dei cantanti di lirica è nelle stesse condizioni, se non anche peggiori [Come racconta la mezzosoprano Cristina Melis in un articolo di Luca Baccolini su La Repubblica di Bologna del 12 marzo scorso, ndr]. Il problema è che non c’è alcun tipo di tutela, la maggior parte di loro lavora come libero professionista. So che, fino al giorno prima della chiusura dei teatri, molta gente aveva un ingaggio in produzioni che poi non sono partite, e quindi ha investito tempo, denaro ed energia per trasferte, affitti e prove per spettacoli che forse non si faranno mai».
Come i cantanti lirici, anche M. è una libera professionista, impiegata in una società privata che si occupa di formazione: «Quando ho scoperto che martedì [11 marzo, ndr] sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro, è stato drammatico. L’azienda è andata in Fis, gran parte dei dipendenti sono a zero ore, alcuni a rotazione, altri in smart working. In questo momento tutti i professionisti, tra cui me, sono a piedi, in attesa di avere risposte. Al momento però non c’è ancora un documento economico che fornisca delle direttive per chi è a partita Iva. Si spera che ci diano un incentivo, un aiuto, come i 500 euro al mese di cui avevo sentito parlare [vedi l’articolo de ilPost, ndr]. Io adesso sono a casa e non lavoro; non sono certa che l’azienda sia chiusa, ma non andrò in ufficio prima del 3 aprile. Occupandomi di corsi di formazione, verrò rimessa sui progetti un po’ alla volta, quando e se ripartiranno, perché è difficile che vengano riattivati nell’immediato. In questo settore il rischio di noi partite Iva è che non si sa esattamente quando ricominceremo a lavorare; potrebbe essere maggio, giugno, luglio… La prospettiva non è assolutamente delle migliori».
È una libera professionista anche C., e opera in uno dei campi più colpiti, il turismo; è una tour leader e al momento dell’intervista, il 12 marzo, si trova a Budapest per lavoro: «Ci tengo molto a raccontare la mia avventura, perché parla anche del menefreghismo dei tour operator, che pur di non perdere il denaro passano sopra a un’emergenza sanitaria. Prima che scoppiasse il caso coronavirus, ho ottenuto questo impiego da un’agenzia di viaggio: il lavoro prevedeva che io andassi a Budapest a prendere un gruppo di turisti australiani e li accompagnassi lungo un percorso che avrebbe poi fatto tappa a Bratislava, Vienna, Lubiana, Venezia e Roma. Una volta lì, i clienti si sarebbero recati a Civitavecchia, imbarcandosi per una crociera. Questo pacchetto era stato acquistato presso un’agenzia australiana da vari gruppi di turisti; alcuni di loro sono già rientrati in patria e due persone sono risultate positive al virus. Con il passare del tempo, le cose sono andate peggiorando. Due mie colleghe, giunte a Lubiana mentre Venezia era già “locked down”, si sono viste sostituire la tappa veneta con Firenze; il tour operator, infatti, non annullava il viaggio perché la crociera non era stata cancellata. A quel punto i clienti avevano due alternative: o prendere un volo per tornare in Australia, pagandolo di tasca propria e perdendo anche i soldi della nave, oppure venire in Italia, senza sapere con certezza cosa sarebbe successo. Alla fine, i due gruppi, ridotti da 80 persone a 32, hanno proseguito e sono arrivati a Firenze. Si sono poi spostati a Roma, e una volta lì le crociere sono state cancellate. I turisti australiani sono stati rimpatriati, ma il problema è che due neozelandesi non sono stati fatti partire e anche gli autisti, macedoni, non riescono a tornare a casa a causa della chiusura delle frontiere. Quando la notte del 9 marzo tutta l’Italia è stata dichiarata zona rossa, ho avuto la conferma che il volo del mio gruppo non era stato cancellato, e che quindi i clienti sarebbero arrivati. Avrei potuto rifiutare il lavoro, ovviamente non sarei stata pagata, ma sarei anche stata disposta a rinunciare ai soldi. Il fatto è che qualcuno sarebbe comunque dovuto andarli a prendere: io ormai avevo quell’incarico e non volevo mancare all’impegno preso. A quel punto la mattina del 10 marzo sono partita da Bologna con la mia autodichiarazione, sono andata a Roma e da lì a Budapest. Ho passato un giorno da sola nella capitale ungherese, dove tutto sembrava abbastanza normale, ma già ieri [11 marzo, ndr], quando sono arrivati i clienti, erano state chiuse le università e annullati gli eventi culturali. Dopo l’arrivo a Budapest, ho dovuto comunicare al mio gruppo che la crociera era stata cancellata, cosa di cui non erano a conoscenza, altrimenti non sarebbero nemmeno partiti».
Ecco come si concludono al momento le traversie della nostra tour leader: «Oggi [12 marzo, ndr] sono venuta a sapere che le frontiere chiudono, quindi adesso la mia sfida è fare in modo che i clienti rientrino il prima possibile in Australia, così che anche io possa tornare a casa. Tutto questo fa parte di un sistema turistico che è decisamente imploso, perché le agenzie non hanno tutelato il viaggiatore, anzi credo che abbiano omesso parte della verità per farlo partire comunque, lucrando sulla pelle delle persone finché hanno potuto. Nel mio gruppo c’è qualcuno con dei problemi oncologici, e in ogni caso sono tutti abbastanza anziani e nessuno di loro si è ben reso conto della portata della cosa; c’è chi continua a dirmi “It’s only a bad flu”. Quelli partiti prima e già rientrati stanno preparando una specie di class action per essere rimborsati, ma da quando è stata dichiarata la pandemia il tour operator, che ha avuto la piena responsabilità, potrebbe anche non ridarglieli. C’è qualcosa di molto sbagliato in tutto ciò: come professionista non sono stata tutelata e neanche i clienti lo sono stati».
Un’altra che si è sentita poco cautelata è B., assunta presso una cooperativa che gestisce anche servizi a enti e beni culturali: «Quando il 23 febbraio c’è stata l’interruzione di tutti i servizi definiti “luoghi di cultura” [vedi il Decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, ndr], io e i miei colleghi abbiamo scoperto che le biblioteche, a differenza dei musei, non avrebbero chiuso. Quindi lunedì 24 febbraio mi sono recata sul luogo di lavoro, nonostante la biblioteca quella mattina non sarebbe comunque stata aperta al pubblico. Poco prima dell’apertura, alle 14,30, i bibliotecari comunali si sono rifiutati di entrare in contatto con gli utenti. Mentre a loro era consentito evitarlo, noi della cooperativa non potevamo. Quel pomeriggio io non ero in turno, ma i colleghi mi hanno riferito che, come poi è successo anche nei giorni successivi, i comunali non stavano al banco prestiti, ma rimanevano negli uffici. La prima settimana, dal 24 al 28 febbraio, c’è stato un clima abbastanza teso, soprattutto tra i “senior” della cooperativa e i dipendenti comunali. Come protezione ci sono stati forniti dei guanti, ma, nonostante fossimo perennemente a contatto con il pubblico, non avevamo le mascherine. Al museo, invece, dove sono stata di turno sabato 7 marzo, prima che arrivasse la direttiva di chiudere, c’erano guanti, igienizzante e in generale erano più rigorosi nel rispetto delle norme. Domenica 8 marzo, poi, c’è stata l’ennesima stretta; da lunedì 9 abbiamo continuato comunque ad andare in biblioteca, anche se a porte chiuse, e abbiamo fatto fondamentalmente le pulizie. Siamo rimasti in attesta di una risposta fino a mercoledì 11, quando Conte ha annunciato la chiusura totale.
Tuttavia, il provvedimento non vale per B.: «Nonostante questo, giovedì 12 sono andata lo stesso a lavorare e oggi [13 marzo, ndr] alcuni miei colleghi sono comunque in biblioteca, anche se pare sia arrivato un documento secondo il quale dovrebbero attivare la Fis. In quest’ultima settimana ho messo a rischio me stessa e le altre persone, banalmente anche solo prendendo il treno. È stata inaccettabile la lentezza nelle decisioni, quando invece si trattava di un momento critico, che richiedeva tempestività. In realtà non mi preoccupano tanto questi ultimi giorni, quanto le tre settimane passate in biblioteca senza le adeguate precauzioni. L’ultima volta che ho lavorato a contatto con il pubblico è stata sabato 7, quindi sarò tranquilla soltanto una volta trascorsi quindici giorni a partire da quella data».
C’è chi invece a lavorare ci sta andando comunque, perché il suo settore non è fermo, come nel caso di S., che è impiegata nell’ufficio commerciale di un’azienda metalmeccanica: «Finché lunedì 9 non è uscito il decreto [Decreto-legge 9 marzo 2020, n. 14, ndr], le cose sono state prese un po’ sotto gamba. Non abbiamo fatto fin da subito approvvigionamento di mascherine, tant’è che adesso le stiamo cercando, ma le consegne sono per inizio aprile e la nostra emergenza è ora. In officina, dove lavorano a postazioni ben distanziate, sono meno a rischio di noi in ufficio. Quello dove sono io è relativamente grande, ma, lavorandoci in tre, non è sempre possibile mantenere le distanze di sicurezza, cosa che invece accade in mensa, dove ci rechiamo a turni. Quello che abbiamo proposto noi dell’ufficio commerciale è ruotare, in modo da essere pochi in azienda. Non staremo a casa tutta la settimana, ma andremo a lavorare un giorno sì e uno no, così da ridurre il numero di persone che deve condividere lo stesso spazio. Per ora non abbiamo un tipo di lavoro che ci permette di fare smart working, quindi abbiamo deciso di alternarci usando le ferie perché comunque da contratto non c’è altra soluzione».
C’è anche il caso di chi lo smart working potrebbe farlo, se non gli mancasse la materia prima, ovvero il lavoro. È la storia di L., architetto impiegato in un’azienda di allestimenti fieristici: «Verso la fine di febbraio e l’inizio di marzo, quando sono cominciati i contagi anche in Italia, le fiere hanno iniziato a saltare, soprattutto vista la mancanza di molti espositori, in particolare quelli cinesi. All’espandersi del virus nel nostro paese, abbiamo continuato a lavorare sulle fiere estere e su quelle italiane in calendario da aprile in poi; in seguito, con l’estensione dell’epidemia, è saltato tutto anche all’estero. In un primo momento il nostro titolare ha deciso di metterci a turno in ferie forzate, poi con l’aggravarsi della situazione sono stati contattati i sindacati e quindi si è cominciato a parlare di cassa integrazione. Inizialmente l’accordo doveva prevedere tre mesi di Fis, con la richiesta del datore di lavoro del pagamento da parte dell’Inps, cosa che avrebbe comportato più di cinque mesi di attesa per ricevere lo stipendio. Alla fine, i sindacati hanno concordato con l’azienda di fare un mese di cassa integrazione, quindi fino a inizio aprile, una specie di accordo-ponte. In questo periodo viene utilizzata la Fis, con l’impegno però del datore di lavoro di pagarci lo stipendio. Nel frattempo, la speranza è che il governo prenda dei provvedimenti per ampliare gli ammortizzatori sociali. La cassa integrazione è fino a inizio aprile, ma sicuramente sarà da prorogare e si vedrà cosa succederà all’azienda».
Per ultimo sentiamo il punto di vista di E., consulente del lavoro: «In questo momento noi consulenti del lavoro ci sentiamo in prima linea. In seguito ai decreti del governo, emanati alla sera con decorrenza dalla mattina dopo, le aziende sono comprensibilmente entrate in uno stato di grande ansia. Il problema è stato: va bene la chiusura, ma con i dipendenti come facciamo? Il governo è intervenuto subito per la tutela dei lavoratori, stabilendo la messa in cassa integrazione secondo i vari canali e ammortizzatori: Inps, regione, enti bilaterali. Le aziende, però, reclamano la mancanza di assistenza nei loro confronti. Un dipendente in cassa integrazione per loro è un costo, perché, anche se il denaro viene erogato dagli enti preposti, il datore deve comunque mettere da parte i fondi per il trattamento di fine lavoro, l’importo dovuto per la quattordicesima e la tredicesima, e quant’altro. Quindi l’impresa, anche se chiusa, deve affrontare delle spese».
Secondo E., quale potrebbe essere una prospettiva per l’immediato futuro? «Stiamo aspettando il “decretone”, come lo chiamiamo noi, che speriamo tuteli e aiuti anche le attività. Ci rendiamo conto che i fondi sono veramente pochi, perché i soldi che lo stato italiano ha ricevuto per questa emergenza dall’Unione europea [25 miliardi di euro, ndr] costituiscono un prestito, che prima o poi dovrà essere restituito. Dall’altra parte abbiamo dovuto gestire l’emergenza e le ansie dei dipendenti che, dal canto loro, non si sono minimamente preoccupati di quello che sta passando e che dovrà subire l’azienda, che potrebbe non aprire mai più la serranda. Il loro pensiero in questi giorni è stato soltanto: “Mi gioco le ferie che non potrò fare ad agosto”, senza capire che ad agosto forse non si lavorerà affatto. Noi consulenti del lavoro abbiamo fatto fronte comune con l’obiettivo di spiegare alle imprese quando e come poter utilizzare gli ammortizzatori sociali, perché in questo senso ci sentiamo tutori della legalità. Bisogna che in primis da parte dei professionisti passi il messaggio di non approfittare di ciò che lo stato dà come aiuto, perché altrimenti tutta l’economia va in blocco. Quindi chi può lavorare, con le giuste accortezze, deve farlo affinché il sistema non si fermi. L’ultima osservazione che voglio fare riguarda il governo, che dovrebbe imparare ad ascoltare i tecnici. La presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, sta chiedendo di semplificare gli adempimenti per attivare la cassa integrazione. Anche se i decreti hanno stabilito che è retroattiva e che ci sono dei tempi più lunghi per la richiesta, rimangono dei tecnicismi da seguire che fanno perdere molto tempo, tempo che non è detto ci venga pagato. Calderone ha cercato di fornire le dritte su cosa chiedono le aziende e le misure necessarie affinché ci possa essere la ripartenza, ma in realtà il governo non ci ascolta».
Al momento in cui si scrive, sabato 14 marzo, C. e il suo gruppo sono rimasti a Budapest, senza proseguire il tour. Dovrebbero rimpatriare all’inizio della settimana prossima. Per quanto riguarda i dipendenti della cooperativa, hanno ottenuto la Fis, ma B. non può accedervi perché non ha maturato abbastanza giorni di lavoro.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XV, n. 171, marzo 2020 – supplemento LM EXTRA n. 36, Speciale Coronavirus)