Nel suo nuovo film “Da 5 bloods. Come fratelli”, l’avventura di quattro reduci statunitensi di colore che dopo mezzo secolo tornano sullo scenario di guerra
Dal 12 giugno 2020 è disponibile su Netflix Da 5 bloods. Come fratelli, l’ultima fatica di Shelton Jackson Lee, meglio noto come Spike Lee, il regista afroamericano di Atlanta, classe 1957. Tra gli attori protagonisti spiccano Norm Lewis, Delroy Lindo (Malcom X, Clockers), Clarke Peters (K-PAX. Da un altro mondo, Tre manifesti a Ebbing Missouri) e Isiah Whitlock Jr. (La 25ª ora, BlacKkKlansman).
Essi interpretano quattro veterani neri che tornano in Vietnam per due ragioni: riesumare la salma del quinto “fratello”, Norman (Chadwick Aaron Boseman), il loro comandante morto sul campo e, intanto, dissotterrare anche un vero e proprio tesoro. Si tratta del pagamento statunitense destinato agli alleati sudvietnamiti in lingotti d’oro. Dato che l’aereo sul quale viaggia l’ingente fortuna viene abbattuto, i 5 bloods ricevono l’incarico di recuperarla. Una volta però trovato il bottino, la proposta suggerita da Norman è quella di appropriarsene, seppellendolo momentaneamente, con l’intento di redistribuirlo poi al “loro” popolo, vessato per anni dallo zio Sam. Un risarcimento, quindi, per «ogni singola recluta nera […] mai tornata a casa». Tematica molto attuale, dato il vigore con cui si è ripreso a parlare dei diritti civili per la popolazione di colore.
Tuttavia, l’idea iniziale per il film prevedeva dei personaggi principali bianchi. Infatti, la prima sceneggiatura, ad opera di Danny Bilson e Paul De Meo, s’intitolava The last tour e stava prendendo forma grazie a Oliver Stone, il quale nel 2016 ha purtroppo abbandonato il progetto. Così il produttore Lloyd Levin si è rivolto a Lee e alla sua 40 Acres and a mule filmworks. Il nome della casa cinematografica del filmmaker è esplicativo: quaranta acri e un mulo era ciò che Abraham Lincoln, verso la fine della guerra civile, aveva promesso agli schiavi emancipati come indennizzo per tutti gli anni di soprusi e abusi subiti. Naturalmente, una volta cessato il fuoco, nessun provvedimento di quel genere fu adottato e quella porzione di terreno insieme all’animale da soma divennero «il simbolo dell’ipocrisia dei nordisti».
Dunque, riepilogando, gli elementi che creano notevoli presupposti ci sono tutti: storia, soggetto politico-civile, fotografia, musiche (Marvin Gaye) ed espedienti narrativi. Tra questi ultimi molto efficace è il formato in 16 mm di filmati (reali o fittizi) che ritraggono eventi passati. Oppure, un altro ancora, riguarda i flashback: qui il contrasto tra il corpo giovane di Norman e quello pressoché sempre attempato degli altri compari marca volutamente la differenza tra chi è rimasto immutato per l’eternità (sia nell’aspetto sia nei puri ideali) e coloro che si sono adeguati per sopravvivere alle traversie della vita. Infine, sono particolarmente toccanti prologo ed epilogo composti dagli originali discorsi di Muhammad Ali, Martin Luther King e Malcom X. Notevoli sono soprattutto le parole del pugile contro la guerra in Vietnam: «La mia coscienza non mi permette di sparare a un mio fratello, o ad altre persone più scure o ad altre persone povere o affamate per la grande e potente America. E perché dovrei sparargli? Non mi hanno mai chiamato “negro”. Non mi hanno mai linciato. Non mi hanno mai scatenato contro dei cani. Non mi hanno mai derubato della mia nazionalità» (26 febbraio 1978, Chicago, Illinois).
Nonostante, però, tutti questi assunti, ci sembra che la pellicola manchi di qualcosa e che pecchi, forse, di una certa dose di prevedibilità. I migliori lavori del regista sono altri; Da 5 bloods. Come fratelli non regge il confronto neppure con il precedente BlacKkKlansman del 2018 in cui si amalgamavano perfettamente differenti generi. Per fortuna rimane lodevole il fatto che con tale opera si sia cercato di dare voce a un popolo da sempre nelle prime file a combattere per quella nazione che poi li sprezzava. In effetti, come ha sottolineato Paola Zanuttini su Il Venerdì di Repubblica del 29 maggio 2020, emerge anche qui la consueta ossessione di Lee per la «docile arrendevolezza afroamericana», la quale, inseguendo il miraggio dell’integrazione, manda giù i peggiori rospi. Una condizione definita dall’autore stesso “schizofrenica” perché la consapevolezza di appartenere a una comunità strappata dalla propria terra e schiavizzata coesiste con l’essere al tempo stesso un americano.
Codesto stato crea una grave frizione interiore, non semplice da gestire. Viviamo in un contesto sociale in cui essere coscienti delle proprie origini e della propria storia è fondamentale. Ormai molti s’indignano, giustamente, della violenza fisica, materiale e strutturale che si perpetra negli Stati uniti durante le manifestazioni del movimento Black lives matter. Le proteste americane odierne sono «la voce di chi non viene ascoltato» (Martin Luther King), così come le manifestazioni di solidarietà in Europa sono gesti simbolici importanti. È bene, comunque, augurarsi che a tali eventi seguano rilevanti conquiste civili. Ad esempio, autentiche riforme concrete capaci di far fronte al problema della discriminazione etnica; ma con l’attuale presidente statunitense non sembra potersi verificare un cambiamento imminente. Infine, un’ulteriore presa di coscienza da parte dell’Europa per il proprio passato coloniale, forse geograficamente e cronologicamente lontano, ma ingiusto e orrendo come la schiavitù e le ingiurie sociali subite dai neri in America.
Le immagini: la locandina del film; Spike Lee; i “cinque fratelli”; Muhammad Ali.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XV, n. 175, luglio 2020)