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Penny Wirton, la scuola per migranti

Scopriamo di che cosa si tratta nell’intervista al fondatore, il docente e scrittore romano Eraldo Affinati

Edoardo Anziano by Edoardo Anziano
4 Luglio 2020
in FAMIGLIA-EDUCAZIONE-SCUOLA, IL LABORATORIO, MONDO E GLOBALIZZAZIONE, TEMATICHE CIVILI
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Penny Wirton, la scuola per migranti
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Scopriamo di che cosa si tratta nell’intervista al fondatore, il docente e scrittore romano Eraldo Affinati

Da più di dieci anni l’organizzazione Penny Wirton, che opera su tutto il territorio nazionale, si occupa di insegnare l’Italiano agli stranieri. Gratuitamente. Abbiamo intervistato il suo fondatore, Eraldo Affinati, insegnante e scrittore, di Roma.

Il nome “Penny Wirton” si ispira a un libro di Silvio D’Arzo, che racconta la storia di un ragazzo povero che conquista la propria dignità. Pensa che la vostra scuola riesca a fare la stessa cosa?
«Noi ci proviamo. Abbiamo 45 postazioni didattiche in ogni parte del Paese. Ogni Penny Wirton è legata a un’associazione locale, tranne quella romana che coincide con l’Associazione Penny Wirton, fondata nel 2008 da me e da mia moglie Anna Luce Lenzi. Ci tengo a sottolineare che la povertà non è solo quella economica. Molto spesso la condizione di svantaggio si lega anche a una fragilità culturale e linguistica».

Avete fin dall’inizio pensato a un progetto basato sul volontariato? Com’è stato possibile realizzarlo?
«In Via dalla pazza classe. Educare per vivere, il mio ultimo libro, racconto per filo e per segno la nostra scuola nata undici anni fa, quando lavoravo ancora come docente di Lettere nella comunità educativa della Città dei Ragazzi di Roma. All’inizio eravamo pochi insegnanti. Oggi siamo centinaia. Abbiamo intercettato migliaia di migranti. Ci basiamo sul rapporto uno a uno. Senza classi, per l’appunto. E senza voti. Con il coinvolgimento attivo degli studenti italiani, delle medie superiori e universitari, che vengono da noi a fare il tirocinio formativo».

Quali sono stati i principali ostacoli incontrati per aprire la scuola e via via le altre sedi?
«A Roma man mano che crescevamo di numero dovevamo cambiare luogo: canoniche, scuole, centri sociali; adesso siamo presso un ostello universitario messo a disposizione dalla Regione Lazio. Le altre sedi dispongono di spazi propri molto simili a quelli dove siamo stati noi romani».

Quali categorie di persone si offrono maggiormente per insegnare? Tra loro ci sono anche non professionisti?
«Oltre agli studenti in alternanza scuola-lavoro, ma anche spinti dalla passione partecipativa, abbiamo pensionati non necessariamente ex docenti. Molte sono le categorie rappresentate: impiegati, operai, giornalisti, magistrati, medici, ferrovieri… Talvolta chi non ha mai insegnato scopre di avere una predisposizione pedagogica a se stesso ignota».

Quali sono le principali difficoltà dell’insegnare la lingua italiana ai migranti?
«Chi vuol fare un’attività di questo tipo, senza essere retribuito, possiede una motivazione speciale che può essere politica, religiosa o esistenziale. Gli ostacoli sono quindi facili da superare. Si tratta di entrare in un rapporto di reciproca fiducia con l’allievo. È una scuola-non scuola. Usiamo un manuale di riferimento per l’insegnamento, composto da me e da mia moglie, intitolato Italiani anche noi e pubblicato dalla Erickson».

In che modo gli studenti entrano in contatto con voi?
«Sono i centri di pronta accoglienza che ce li mandano, oppure le case-famiglia. Spesso vengono anche da soli, per un passaparola che ormai sta diventando sempre più intenso».

Complessivamente, considerando tutte le sedi, ricevete molte richieste di partecipazione? Riuscite a far fronte al numero di domande o capita che non ci siano abbastanza insegnanti?
«Io non controllo direttamente tutte le sedi, ma so che non abbiamo mai avuto problemi di questo tipo. Gli insegnanti sono sempre tanti e disponibili. Ciò ci spinge a continuare la nostra azione. A Roma non abbiamo mai mandato via nessuno. Accogliamo sempre tutti, in qualsiasi momento dell’anno e, anche durante le lezioni, se qualcuno si presenta in ritardo, lo riceviamo volentieri perché conosciamo la fatica che ha fatto per venire da noi».

Quali sono i Paesi di maggiore provenienza degli studenti? Qual è la fascia d’età più rappresentata? Ci sono più maschi o più femmine?
«Anche questo dipende dai vari territori e dai momenti storici. Per quanto riguarda Roma, ora come ora ci sono tanti africani e bengalesi. Noi abbiamo molti minorenni non accompagnati, quasi sempre maschi. Negli ultimi anni, però, sta crescendo la presenza femminile, soprattutto nigeriana. Ci sono mamme con bambini anche piccoli».

Gli studenti hanno richieste specifiche circa l’apprendimento della lingua?
«L’obiettivo primario è imparare i rudimenti essenziali dell’italiano, necessari per trovare lavoro e ottenere il permesso di soggiorno. Abbiamo tanti analfabeti nella lingua madre: sono loro i nostri studenti preferiti perché sappiamo che hanno più bisogno di quelli già scolarizzati».

Quanto tempo rimangono in media gli alunni nella scuola? E quante nozioni riescono ad apprendere?
«Gli allievi vanno e vengono, sono come un fiume che scorre, per cui è difficile pianificare un percorso. Bisogna lavorare sul presente, su quello che c’è, partendo dalla persona che abbiamo davanti. I tempi e le forme di apprendimento dipendono da questo: chi già sa scrivere in altre lingue è più facilitato rispetto all’analfabeta. Gli slavi, per esempio, ovviamente imparano prima rispetto agli arabi che scrivono da destra a sinistra».

C’è chi approfondisce gli studi in seguito?
«Alcuni sì, possono arrivare sino alla laurea. Ma la grande maggioranza si ferma a qualche corso professionale».

Avete particolari attenzioni sull’abbinamento maestro e allievo?
«Cerchiamo di favorire gli abbinamenti migliori. Se si crea un rapporto di amicizia lo incoraggiamo. Ma bisogna essere pronti a cambiare, sia da parte dell’allievo, sia da parte del docente. Questo è facilitato dalla presenza di una scheda didattica dove sono riportati gli argomenti delle lezioni fatte, per cui il volontario successivo si collega ai contenuti già registrati. Si crea un’aria di famiglia. Non si tratta di una lezione privata: si percepisce uno stile comunitario, anche se il rapporto resta uno a uno. Da intendersi come stile, non quale norma schematica da seguire».

In che modo vi finanziate?
«Intanto azzeriamo i costi. Lo spazio romano è concesso dalla Regione Lazio in comodato d’uso gratuito. Accettiamo donazioni che ci servono, ad esempio, per pagare l’assicurazione e comprare i materiali di cancelleria. I libri che usiamo li mettiamo a disposizione. Non partecipiamo a bandi. Crediamo nel valore della gratuità».

Avete mai ricevuto critiche o minacce per quello che fate?
«Niente di particolarmente significativo».

Che soddisfazione vi dà lavorare con i vostri studenti?
«Loro sono contenti. Vengono felici da noi. E vederli così è la soddisfazione più grande».

Edoardo Anziano

(LucidaMente 3000, anno XV, n. 175, luglio 2020)

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Tags: Eraldo Affinatifocusinsegnamentointervistaitaliaitalianolingua italianamigrantiPenny Wirtonregione lazioromascuolaSilvio D’Arzo
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