Reportage dalle colline fiorentine, dove la raccolta dell’uva è alle prese con la pandemia e il mancato ricambio generazionale
Ibrahim (il nome è di fantasia) ha 21 anni. Lo incontriamo in una vigna nella zona del Chianti, sulle colline intorno a Firenze. È qui insieme al padre e ad altri otto giovani; tutti, come lui, vengono dal Marocco. Sono qui per lavorare come braccianti agricoli alla raccolta dell’uva. Otto ore al giorno per circa una settimana. Il lavoro è duro, ma ben pagato: si guadagnano 7,30 euro lordi all’ora, come da regolare contratto collettivo nazionale.
Eppure, questo lavoro gli italiani non lo vogliono più fare. «Anni fa era pieno di studenti che venivano alla fine di settembre», ci spiega G. mentre accende il trattore cingolato che servirà a trasportare i grappoli, «adesso non viene più nessuno». G. è uno dei tre italiani che ogni anno vendemmiano questa dorsale del Chianti che guarda verso Impruneta. Tutti vicini agli ottant’anni, tutti in pensione: sono i viticoltori storici dell’azienda agricola. Vengono a lavorare più per passione, perché, come esclama B. durante la pausa pranzo, «io seduto al bar non ci posso stare!». Dopo alcuni giorni di studiato silenzio, mentre nella calura di fine settembre svuotiamo panieri da dieci chili nel carro del trattore, Ibrahim attacca il discorso. Commentiamo l’uva ‒ quest’anno è bella, ma abbiamo iniziato troppo tardi la raccolta ed è già tutta beccata dagli uccelli ‒ e imprechiamo contro un sole fuori stagione. Ha lasciato la scuola, Ibrahim, ed è qui perché, a suo dire, «a casa non aveva niente da fare». Non lavora, «faccio trading online», rivela. In parole povere, gioca in borsa, insieme a un amico. Ci confessa che adesso guadagna anche 6-700 euro al mese, ma fa intendere che deve averne persi di soldi prima di capire il meccanismo.
«Io, comunque, sono antisemita» esordisce candidamente Ibrahim una mattina. Diluvia, scendere lungo i filari nel fango è un’impresa e la conversazione langue. Di fronte a un silenzio a metà fra l’imbarazzato e l’indignato, va avanti: «Tu cosa ne pensi degli ebrei?». Veniamo interrotti dal vociare che viene dai filari vicini: i ragazzi marocchini si lamentano perché gli italiani chiacchierano troppo e rallentano la raccolta. Si discute di frequente: qualcuno ha lasciato in terra un grappolo carico, qualcuno ha perso il conto dei filari già fatti, il padrone della vigna ‒ anche lui ottantenne ‒ si cruccia in quanto non ci sono tre operai dietro al trattore come vorrebbe.
Entrando in questo mondo ci si rende conto che, in fondo, è ancora una realtà fortunata: non ha nulla a che vedere con la raccolta dei pomodori a Rosarno né con quella della frutta nell’Agro Pontino. Non ci sono caporali in questa ricca zona della Toscana, i contratti sono regolari e le paghe giuste. Nonostante tutto, però, anche questo territorio storicamente “rosso” e benestante sembra andare incontro a un futuro segnato: i proprietari dei terreni sono sempre più vecchi, il ricambio generazionale è praticamente inesistente, gli investimenti si fanno di anno in anno sempre più insostenibili. I dati sulla produzione toscana del vino 2019 erano stati comunque incoraggianti: +10%, «l’unica regione su tutto il territorio nazionale con una crescita positiva», notava Coldiretti. Sulla vendemmia 2020, invece, hanno pesato il lockdown causato dalla pandemia di coronavirus e il calo delle esportazioni verso l’estero: secondo i dati di Assoenologi, Ismea e Unione italiana vini, la produzione si è ridotta del 15% rispetto all’anno precedente, perdendo quasi 400 mila ettolitri fra vino e mosto. Il futuro del settore vitivinicolo toscano sembra essere, oggi più che mai, incerto.
Le immagini: scorci panoramici dei vigneti del Chianti.
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 179, novembre 2020)