Come il gigante asiatico è riuscito in vent’anni ad avere nelle proprie mani il mondo intero, sottomettendolo senza sparare un colpo
Un celebre brano de L’arte della guerra (trattato scritto tra il VI e il V secolo a.C. e attribuito al generale cinese Sun Tzu) afferma: «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento bensì sottomettere il nemico senza combattere». Chi vuole cercare di comprendere la civiltà cinese, anche contemporanea, e lo strano ircocervo di una repubblica popolare comunista-capitalista al massimo grado, dovrebbe avvicinarsi al confucianesimo, al maoismo e, appunto, a opere come L’arte della guerra.
Le civiltà sono fenomeni di lunga, lunghissima durata. Riteniamo a torto epocali degli avvenimenti invece secondari, accessori, che neppure scalfiscono la compattezza e la continuità di una cultura secolare. Se usassimo il linguaggio marxista, potremmo parlare di sovrastrutture che appaiono come il nuovo volto di una civiltà, mentre, invece, potrebbero paragonarsi a un belletto che dura le ore di un ricevimento. Il discusso volume Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996, in Italia edito da Garzanti) del docente americano alla Harvard University Samuel P. Huntington (1927-2008), esperto di politica internazionale, ci avverte. Le anime pure della globalizzazione s’illudono che, poiché tutti gli abitanti della Terra bevono Coca-Cola, mangiano da McDonald’s, o ascoltano musica rap, siano “uguali”, anzi, soggiogati dalla cultura made Usa. E, ovviamente, fratelli. Non è affatto così. Ci siamo accorti, anche a nostre spese, che sul pianeta esistono civiltà e culture diverse, non assimilabili.
Huntington parla di almeno nove civiltà ben distinte, con caratteristiche, etnie, lingue, religioni, mentalità, usi e costumi ben definiti. Altro che civiltà universale! Tra tutte (buddista, giapponese, indù, islamica, latinoamericana, occidentale, ortodossa e, forse, africana) la più antica è la sinica! Essa è fondata sul confucianesimo, che, semplificando, privilegia il gruppo all’individuo e pone gerarchia e obbedienza come propri cardini. Tutti coloro che hanno guidato la Cina, dagli imperatori a Mao Zedong, hanno perpetuato, nonostante le apparenti diversissime facciate, questo meccanismo sociale. Nella repubblica cinese l’orwelliano Grande Fratello è già una realtà: il controllo di tutti gli abitanti attraverso smartphone e internet è capillare e continuo. Ovviamente, tutto si fa per il bene e la sicurezza dei cittadini e per premiare i più virtuosi…
Nell’articolo di apertura di questo numero di LucidaMente, I dodici passi verso la catastrofe, abbiamo rinviato al presente articolo per approfondire meglio il fattore-Cina negli sconvolgimenti che negli ultimi 30 anni hanno peggiorato la qualità della vita delle persone in buona parte del pianeta. Per cogliere il “miracolo” nella sua recente espansione egemonica, occorre partire dal 2001, allorquando la Cina viene ammessa nel Wto (Organizzazione mondiale del commercio). Come abbiamo scritto, «l’Occidente pensa così di poter spadroneggiare in un mercato con più di un miliardo di possibili acquirenti. In realtà, il libero commercio è un cavallo di Troia grazie al quale la Cina potrà esportare le proprie merci con una concorrenza sleale, visti i bassissimi costi della manodopera e la scarsa qualità delle materie prime e degli stessi prodotti finali. La strategia economico-commerciale nonché politica della Repubblica popolare cinese comprende cinque mosse successive». Ecco le cinque possibili tappe.
Fase 1. Insediamento di comunità cinesi all’estero e vendita di prodotti manifatturieri. In Occidente cominciano a essere importate merci di scarsa qualità (giocattoli, cartoleria, prodotti per la casa, plastica, ecc.) targati Made in P.R.C. Intanto le comunità cinesi immigrate, “chiuse”, incapsulate, con pochi contatti con la società circostante, sono collegate direttamente allo stato di partenza. In Italia i cinesi regolari sono oltre 300mila; le imprese individuali oltre 50mila, con scarso rispetto delle normative in materia di fisco, sicurezza, previdenza. Già negli anni Novanta esse conquistano larghe fette dei settori tessile, pellettiero e calzaturiero della nostra economia. Buona parte dei guadagni finiscono a Pechino.
Fase 2. Apertura delle frontiere cinesi alle aziende straniere, che possono delocalizzare con grandi benefici su costi del lavoro, normative ambientali, fisco. Una cuccagna? No. Nei settori strategici le imprese straniere sono obbligate per legge a costituire joint ventures con le imprese locali e sono costrette a esportare tecnici, macchinari e tecnologie di alto livello, che la Cina incamera pure a livello di un know how prima sconosciuto.
Fase 3. Esportazione all’estero anche di prodotti tecnologici e acquisto di aziende e non solo. Acquisite le conoscenze, grazie alla mancanza di dazi, non consentiti dal Wto, si invade il mercato estero, ma stavolta non con merci di scarsa qualità e costo, ma con prodotti anche di avanzata tecnologia. Il progetto Obor (One belt one road) o Bri (Belt and road initiative), da noi conosciuto come Nuova via della seta (e siamo stati l’unico paese del G7 ad aderirvi) non è altro che un insieme di infrastrutture in grado di consentire un massiccio e ininterrotto flusso di merci verso l’Europa, senza quasi controlli alla dogana. Nei decenni si è intanto così creato un enorme surplus nella bilancia commerciale cinese. Esso viene utilizzato per acquisire aziende, quote societarie, immobili stranieri. E per entrare in possesso di buone fette dei debiti pubblici di vari stati occidentali, tra i quali gli Usa. La Cina è ormai stabilmente la seconda economia del pianeta, con un Pil nominale di 15mila miliardi di dollari contro i 22mila degli Usa. Oggi son più di 28mila le imprese europee controllate da aziende cinesi: un bel balzo in avanti rispetto alle 5mila del 2007.
E la tanto controversa nuova generazione di telefonia mobile 5G? Il piano “Made in China 2025”, varato nel 2015, ha lo scopo di rendere la Cina il principale produttore mondiale di apparecchiature di telecomunicazione, ferroviarie ed elettriche entro quella data. Al suo interno il 5G è definita «industria emergente strategica». Il problema è che nella Repubblica popolare cinese i confini tra economia e politica, aziende e stato non sono separati. Se si consente ad Huawei di costruire le reti 5G in Europa, si abdica pure alla propria sicurezza nazionale: chi installa una rete sa anche come disattivarla in meno di un secondo…
Fase 4. Alla conquista (imperialista) di Africa e Sudamerica. Le politiche economiche attuate verso il Continente nero dopo la decolonizzazione e verso quello latinoamericano sono state definite imperialiste e neocolonialiste dalla contestazione sessantottesca e dalle sinistre comuniste. Ma ora che il colosso asiatico fa di peggio, i termini imperialismo e neocolonialismo sono proibiti. In effetti, in vari paesi africani e ora anche sudamericani, l’infiltrazione cinese è di tipo imperialistico, con l’acquisizione del loro debito pubblico in cambio della costruzione di strategiche e vantaggiose infrastrutture, l’occupazione e lo sfruttamento di interi territori ricchi di materie prime o altro e, di fatto, col controllo politico degli stati. In apparenza, per favorire generosamente i paesi in via di sviluppo: è questo, infatti, il fine ufficiale della New Development Bank con sede a Shangai, nata nel luglio del 2014. Per cercare di far aprire gli occhi a quelli che un tempo erano definiti «utili idioti», ecco alcuni dati.
La parolina magica è forse essenzialmente una: Resourcebacked loans (Rbl). Il termine significa “prestiti in cambio di risorse”: in pratica, la Cina, grazie al suo enorme surplus commerciale, concede soldi e s’impegna a creare infrastrutture in cambio di penetrazione economica, commerciale (ma anche politica e militare) e materie prime. Ma come trasportare merci export e risorse da importare senza strade, ferrovie, porti? A questo punto entra in gioco la Bri. I dati relativi a fine 2017 indicavano in 400 miliardi di dollari i prestiti concessi dalla Cina a ben 106 paesi. Una sorta di diplomazia del debito, che suona più allettante rispetto alle vecchie definizioni di colonizzazione di nazioni disperate. Uno dei paesi più legati a doppio filo con il colosso asiatico è l’Etiopia. L’ex colonia italiana deve alla Cina quasi metà del suo debito estero. Non sorprende, perciò, che una consistente quota della grandiosa diga Grand ethiopian renaissance dam sia stata ceduta alla cinese State Grid, in cambio della cancellazione degli interessi sul debito. La ferrovia Addis Abeba-Gibuti (che ha un debito verso la Cina del 70% del proprio Pil) collega la capitale etiope con la prima base navale militare cinese in Africa. Perché meravigliarsi allora che il direttore dell’Oms, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, peraltro appoggiato nella sua elezione dalla Cina, abbia minimizzato fin dall’inizio le responsabilità cinesi nella diffusione globale del coronavirus?
Il Kenya ha ceduto il proprio porto di Mombasa alla Cina come ricompensa dei debiti contratti per la costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi. Spostandoci un attimo in Asia, simile è la vicenda del porto di Hambantota, in Sri Lanka, di cui è stato ceduto per 99 anni il controllo alla Cina. In Zambia la realizzazione dell’autostrada Lusaka-Ndola è stata affidata alla China Jiangxi International. Non c’è alcun collegamento tra il fatto che la Cina possieda un terzo del debito estero dello Zambia e il fatto che abbia acquisito la terza più importante miniera del paese africano, nonché traffichi sottobanco il palissandro di Mukula, in via d’estinzione? Sì, perché l’aspetto più importante è l’accaparramento di risorse vitali: dal petrolio al carbone, dalla bauxite al rame, dalle terre rare al legname. In Sudamerica Ecuador e Venezuela ripagano il proprio debito contratto con la Cina col petrolio, dal prezzo però sempre minore. Oltre quelli già citati, la lista dei paesi ormai dipendenti dalla Cina è enorme e riguarda tutti i continenti: Angola, Bangladesh, Laos, Mongolia, Montenegro, Nepal, Pakistan, Tajikistan (e persino l’Oceania con Isole Salomone, Kiribati, Tonga). All’espansionismo cinese non è sfuggito neppure il paradiso turistico delle Maldive: la base militare di Feydhoo Finholu è stata concessa per 50 anni e, per ripagare i debiti accumulatisi per la costruzione di un nuovo aeroporto e del relativo ponte collegato alla capitale Malé, s’ipotizza un’altra base nell’isola di Marao.
E l’Italia? È anch’essa una nazione colonizzata dalla Cina? Secondo i dati diffusi da Il Sole-24 Ore, nel nostro paese le aziende a partecipazione cinese sono quasi 700 e fatturano circa 18 miliardi di euro. Il miliardario cinese Yishun Niu ha rilevato il 5,19% della Pirelli; quindi oggi, sommando il 46% già in possesso della cinese Cnrc (China National Tire & Rubber), già maggiore azionista del gruppo italiano, gli asiatici posseggono la maggioranza azionaria della multinazionale milanese. I cinesi hanno investito anche in Ansaldo energia, Benelli, Buccellati, Candy, Caruso, Cdp Rieti, Ferretti Yacht, Inter, Krizia, Moto Morini e posseggono partecipazioni in Intesa Sanpaolo, Snam, Terna, Unicredit. Ma forse il colpo più grosso è quello del memorandum d’intesa firmato nel marzo 2019. Due dei 29 accordi riguardano la realizzazione congiunta di alcune grandi opere nei porti di Genova e Trieste, strategici per l’infiltrazione commerciale. E con gli anni nel Belpaese si è formata una lobby filocinese trasversale a quasi tutti i partiti…
Fase 5. Il misterioso coronavirus. È storia di questi mesi e non è certo conclusa. Il coronavirus sta distruggendo proprio i competitori economici del colosso cinese, non certo il paese da cui esso è nato (vedi La Cina e la pandemia: le responsabilità da non dimenticare e le strategie politico-economiche imperialiste). Vi possono essere dubbi sulle possibili origini della pandemia [Perché il coronavirus (e perché in futuro ce ne saranno altri); I Giochi Militari di Wuhan a ottobre e il coronavirus: ora il sospetto per tutti quegli atleti malati] e, allora, perché non chiarirli? Invece, nonostante la richiesta fatta nell’assemblea dell’Oms dello scorso 18 maggio dalla stragrande maggioranza dei paesi aderenti, la Repubblica popolare cinese ostacola ogni inchiesta internazionale indipendente sul laboratorio P4 di Wuhan e sulla diffusione del virus, posticipandola a fine epidemia (Coronavirus, oltre 100 Paesi con l’Europa per inchiesta indipendente su Covid-19. Ma la Cina frena: “È prematura”), cioè quando ogni eventuale residua prova sarà sparita… Guarda caso, il sempre più ineffabile presidente dell’Oms, il già citato Ghebreyesus, ha subito aderito alla linea “attendista”. Tuttavia, un indizio c’è già. L’Istituto di virologia di Wuhan, al cui interno vi è il famigerato laboratorio di massima sicurezza P4, che tratta i virus più pericolosi, è stato fondato fin dal 1956, all’alba del regime comunista. Ma il balzo di qualità avviene dal 2003, grazie a un progetto finanziato dalla Francia per combattere la Sars. Però la collaborazione franco-cinese finisce subito, e male. Gli europei si ritirano per la resistenza cinese a qualsiasi trasparenza e condivisione della ricerca scientifica.
Intanto, le conseguenze economiche sono sotto gli occhi di tutti. In una nota dello scorso 7 aprile l’Ansa ha affermato: «La Cina ha registrato ad aprile un surplus commerciale di 45,34 miliardi di dollari, più che doppio sui 19,93 miliardi di marzo e ben oltre i 6-10 miliardi attesi a vario titolo dagli analisti. Secondo i dati diffusi dalle Dogane cinesi, che fotografano gli effetti sull’economia della pandemia del Covid-19, l’export è cresciuto a sorpresa del 3,5% annuo a fronte del -6,6% di marzo e del -12,1% stimato dai mercati. L’import ha accusato un crollo del 14,2% annuo contro il -0,9% di marzo e il -12,4% stimato dai mercati». In un’intervista all’Agi, Joshua Wong, leader del partito Demosisto e degli studenti di Hong Kong, ha affermato che, «al di là di ogni dubbio, la Cina sta sfruttando l’invio delle sue mascherine sanitarie allo scopo di ottenere una futura influenza politica. La generosità insincera ha un prezzo». Non c’è da aggiungere altro.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XV, n. 174, giugno 2020)