Nelle pagine del premio Nobel tedesco, le differenze maschile/femminile irrompono con prepotenza, innescando una riflessione collettiva sulla società e sui nuovi equilibri nel secondo Novecento
Lo scrittore tedesco Günter Grass (1927-2015), artista eclettico entrato nel gotha della cultura letteraria a ridosso della Seconda guerra mondiale e premio Nobel per la letteratura nel 1999, inaugura, nel 1959, con Die Blechtrommel (Il tamburo di latta, Feltrinelli, pp. 608, € 15,00) la Trilogia di Danzica: un trittico di immagini sull’uomo e sulla vita che, ripudiando le forme del tradizionale romanzo di formazione à l’allemande, prova a rinnovellare il romanzo dell’Io.
L’opera che più di tutte manifesta il dissenso rispetto all’ordine precostituito è Il tamburo di latta, ma è in Gatto e topo (Feltrinelli, pp. 176, € 8,00) che si ravvisa la genesi di un contrasto di genere destinato a perdurare. Il giovane Mahlke, protagonista indiscusso di un racconto a metà tra fiaba e novella, è un puro, espressione di una virilità vergine degli attributi del presente, di cui egli trattiene solo le immagini meno ideologizzate, nell’illusione di scongiurare gli esiti più nefasti della storia. Tuttavia, nella cosmologia grassiana, la storia deve compiere il proprio corso, presentandosi con le luci della ribalta e le ombre della caduta. A destare più scalpore è la semplicità con cui Grass ragiona sull’uomo, tratteggiando al femminile le manifestazioni della vita contemporanea: un esserino “androgenizzato” pieno di vitalità e in grado di rifuggire gli schemi imposti dal paternalismo prussiano. Nella figura di Tulla Pokriefke, metafora del nuovo e del diverso che avanza, Grass intende comprimere il senso dell’identità di genere nella seconda metà del Novecento.
Il modo in cui la metamorfosi al femminile prende forma, tuttavia, indispettisce sulle prime il lettore: Tulla non è il vettore di una serenità adamantina, né la figura accomodante che accoglie nella sua alcova l’uomo di ritorno dalle vicende belliche o dall’operato quotidiano. Tulla è alle prese, più dell’uomo stesso, con le vicende della vita, pronta a ribattere e affermare un’identità che se, a tutta prima, sconvolge la società, in pochi anni sarà in grado di capovolgere gli equilibri prestabiliti. Ella diviene emblema di una vis giurassica, un tempo comodamente ascritta all’uomo, simbolo di una forza argomentativa in grado di lasciare sgomento l’interlocutore.
La reazione sociale non si fa attendere. Al di là dello scalpore, la comunità è costretta a ripensare all’equilibrio tra generi interrotto dalle vicende della guerra e da una poderosa riflessione collettiva sul contributo che ciascuno può donare in favore di una società libera e democratica. Mentre l’uomo annaspa tra mille interrogativi scaturiti solo in parte dalla partecipazione alle imprese belliche, Tulla si rende emblema di una nuova forza declinata al femminile, colei che osa perché sa esattamente ciò che la vita può darle e sa come ottenerlo. Tulla sconvolge per la sua indole, arrogandosi caratteri e difetti un tempo connaturali all’uomo: il suo lavoro la eleva su un podio ove appare tronfia dell’indipendenza e della sacralità sottratte alla donna nei secoli. È altresì un caso che minaccia di dilagare e innesca una paura collettiva, tanto più se si considera la genesi del fenomeno: nella provincia orientale di una Germania in ritardo rispetto al progresso socioculturale occidentale, Tulla rivendica il diritto alla maternità pur in assenza di un marito, e altresì la necessità di esprimere liberamente il proprio appetito e i propri gusti sessuali. Come si presenta la società rispetto a tale cambiamento epocale? La collettività è interdetta ma deve accettarne le forme e le manifestazioni.
A segnare il passo interviene ineluttabilmente, come in molte opere del danzichiano, il flusso inarrestabile della Storia, che con sé muove innanzi il cambiamento materiale ma anche la presa di coscienza rispetto a un Io avvilito e mortificato per secoli, attanagliato dagli imperativi del momento e dai bisogni al maschile: un’energia che non si lascia imbrigliare e prova a spezzare le catene. Le modalità con cui il cambio epocale prende forma annunciano una transizione che ha in germe una conflittualità destinata a rimanere irrisolta per lunghi decenni.
Ciò che Grass sembra ambiguamente denunciare è la manifestazione ex abrupto di un essere che, nel rivendicare la parità, utilizza secolari espedienti volti al maschile, finendo per smarrire i tratti della sacralità e della purezza che il danzichiano era pronto ad assegnarle, quali elementi ontologici costitutivi del codice genetico femminile. Senza avviare un’indagine ontica sull’essere in divenire, Grass prova, scatenando le ire dei movimenti femministi allora nascenti, che la metamorfosi della donna rischia di prendere forme errate, mutuandole dal maschilismo e dal virilismo in piena decadenza. Grass taccia di significati allegorici l’errabonda ricerca di un’armatura necessaria a fortificarsi per rispondere ai colpi della politica, al qualunquismo e alla critica mossa dalle donne più insensibili all’esigenza di spezzare le catene e affrancarsi dal giogo maschile. Di fronte a tali riflessioni che evidenziano una visione fin troppo parziale e allegorica del reale, occorre dismettere l’eredità di Grass sul discorso di genere?
Alcuni emblemi della donna contemporanea risultano eccessivamente spostati sull’asse della riproduttività e dell’incapacità femminile di guidare il mondo e guadagnargli un equilibrio sconosciuto alle società patriarcali. In tal senso, basti analizzare il romanzo La ratta (Einaudi, pp. 422, € 12,50), datato 1986, un’enciclopedica trattazione sui fallimenti della donna impegnata verso il XXI secolo a tirare le fila dell’umanità.
A dispetto di tutto ciò, un merito autentico e indiscusso si ritrova nell’invito a sganciarsi dalle logiche inveterate di un virilismo che non sbaglia né fallisce mai, sinecura e sigillo di probità, giustificato in tutti i casi in cui nel dibattito in nuce su chi guiderà il mondo si provi a discutere della sua legittimità e a obliterarne l’azione in favore degli imperativi del momento: la guerra, il progresso, gli obblighi imposti dalla società capitalista e globalizzata e quelli che verranno. Contro tale salvacondotto si scaglia l’invettiva del poliedrico autore: la storia è stata scritta tradizionalmente al maschile, condizionando la lettura dei fatti e ogni intervento interpretativo che, mosso da lucidità e istanze perequative, intendesse riportare gli accenti sul ruolo degli uni e delle altre. Non è un caso che, nel 1969, Grass dia alle stampe un’opera vivace quanto complessa come Anestesia locale, intervento redentivo di una società attanagliata dal dilemma del progresso tout court verso cui le energie meno viziate confluiscono proprio da giovani e donne, le componenti più schierate in favore dell’eguaglianza e dei diritti civili.
In quest’opera Grass tenta la risalita della china, impegnato a disegnare la parte ascendente di una parabola sulla vita le cui sorti non dipendono più dagli anabattisti della prima ora né dall’irredentismo di coloro che hanno scambiato il livore e un’ideologia ebbra di furor bellicus con gli interessi della patria: qualità tuttora riposte nel campo del maschilismo e dell’autorità paterna. Con personaggi come Irmgard Seifert in Anestesia locale e Joachim Mahlke in Gatto e topo, Grass fa ruotare attorno alle energie incorrotte di una vita che tenta la rinascita – in piena armonia con i propri ritmi e le proprie condizioni – la genesi di un capitolo nuovo.
In tale visione, all’uomo è richiesto lo sforzo di affrancarsi da convenzioni e metafore esornative di un virilismo disinteressato alla denuncia di sé e del sociale. Sotto i colpi sferrati da una donna determinata a rivangare il passato e a dichiararsi colpevole rispetto alla guerra, al revisionismo storico e al qualunquismo del presente, Grass attesta come un modello millenario centrato sull’azione incondizionata, su una ragione di Stato che eleva l’uomo a perpetuatore del male, stia ineluttabilmente uscendo di scena. Con Irmgard Seifert Grass ha trascritto un’evoluzione di genere positiva, restituendo alla letteratura il riflesso di una creatività femminile scevra delle ombre e dell’“androgenismo” attagliato – anni prima – al personaggio torvo e ombroso di Tulla Pokriefke. Irmgard diviene il sigillo dell’amore incondizionato, emblema di un Io universale che non ammette i limiti prescritti dalla società prebellica, rappresentazione di un’intelligenza emotiva che non ha genere e richiede solo un affondo reale nelle questioni della vita, nelle responsabilità personali e collettive in fatto di genocidio e di distruzione di massa, come pure una dedizione autentica nello scavo personale.
Nel dualismo Starusch-Irmgard su cui fa leva il romanzo per mettere in controluce le immagini distoniche dell’uomo e della donna, Grass dimostra come il professore Starusch sia l’emblema di un narcisismo al maschile impreparato a cedere terreno al confronto apolitico, privo di uno schieramento ideologizzato. Grass gioca il contrasto distonico a partire dall’archetipo millenario dell’uomo guidato dal favore degli dèi, fallito solo dopo che una hybris dichiaratamente ostile al suo operato lo ha defraudato delle qualità insite nel vincitore.
Quanto alla controfigura dell’uomo, Grass non ricorre questa volta alla disforia di genere, bensì fa sua una pletora di metafore per restituire la forza dirompente dalla natura: una donna in grado di «scavare dalle macerie» – simbolo della ricostruzione materiale del Paese –, una mater aeterna sacra e sacralizzata, lesta nell’accogliere nel proprio grembo i risvolti di un presente che si può riscrivere senza ombre né imposizioni. In tal senso va riletta l’eredità intellettuale trasferita a noi dall’autore tedesco: il primo passo verso un presente non-storicizzato, entro i cui limiti l’uomo e la donna sperimentano un confronto ad armi pari, muovendo le leve del proprio Io. Così Grass prova implicitamente come forza e debolezza non costituiscano i vettori privilegiati di una società duale, né le componenti necessarie a disegnare l’essenza dell’uomo e della donna. Lo spazio è ceduto interamente alla componente dissacratoria dell’Io pronto a ripiegarsi, trasformarsi e riaprirsi a nuova vita, prescindendo dal genere ascrittogli per natura. La vera intelligenza non risiede nell’autore, colui o colei da cui essa si diparte, bensì nelle forme in cui si trasforma.
Gianluca Sorrentino
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 184, aprile 2021)