I minori nati nel nostro Paese da genitori stranieri sono 572.720 e aspettano da tempo una risposta sul loro diritto di cittadinanza. Ma dopo le esternazioni di Napolitano la politica si divide
Sono poco meno di 600 mila, hanno un volto, un nome, ma non un’identità. Non sono italiani né stranieri, bensì dei corpi che vagano per le nostre città in attesa di una risposta che tarda ad arrivare. Sono questi gli “immigrati 2.0”, figli di uomini e donne che, come noi, vanno al lavoro e pagano le tasse, pur trascinando sul loro corpo i chiari segni di mari impervi o desolate distese che hanno superato armati di una cieca fede e sogni spesso – almeno in parte – delusi.
Sono infatti privati della cittadinanza italiana, come stabilito dalla legge 91/1992. Qui ritroviamo due princìpi: lo ius sanguinis, per cui «acquista la cittadinanza il figlio anche adottivo di genitore in possesso della cittadinanza italiana», e lo ius soli, che riguarda i nati in Italia da genitori ignoti o apolidi. Nonostante ciò, l’unico mezzo d’acquisto automatico è lo ius sanguinis, poiché esercitando lo ius soli i minori possono fare richiesta di cittadinanza non prima del compimento del 18° anno di età – ed entro il 19° – a condizione che siano in grado di dimostrare di aver vissuto ininterrottamente sul territorio italiano.
A ricordare la precarietà di questa schiera dimenticata di persone aveva pensato già, in occasione del voto di fiducia al Governo Monti, il segretario del Pd Pierluigi Bersani, esprimendo la volontà forte di rappresentare i diritti che questi ragazzi non hanno. A distanza di pochi giorni, quasi come un vecchio nonno amorevole mai dimentico, è intervenuto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, auspicando la possibilità di affrontare la questione in Parlamento poiché, come da lui dichiarato, «negarla è un’autentica follia». Come prevedibile, le sue parole non sono cadute nel vuoto: se molte forze politiche hanno preso atto della questione, un deciso niet è venuto dalla Lega, la quale, con l’ex ministro Roberto Calderoli, ha minacciato le barricate. Una sciocchezzuola rispetto all’attacco frontale di Carlo Giovanardi (Pdl), che, visibilmente infastidito da quella che egli evidentemente considera una boutade estemporanea e fuori luogo, ha cercato di “zittire” la prima carica dello Stato!
Riconoscere i diritti è simbolo di democrazia e tolleranza, la loro concessione non mette in pericolo né la sovranità né l’identità del nostro Paese. Pensiamo solo alla nostra composizione sociale: non esiste più nella pratica una divisione netta tra l’italiano e lo straniero, un odierno muro di Berlino che separi noi da loro. I vari processi d’integrazione ‒ non sempre senza fatica ‒ stanno via via permettendo la realizzazione di una multietnicità che, in barba alle derive nazionaliste e neorazziste, fa bene all’Italia, fa bene agli italiani, perché solo con il confronto si può aspirare a una crescita socio-culturale. Quindi perché aver paura e ghettizzare? Diamo a questi 600 mila un’identità e un futuro da condividere con i nostri figli e combattiamo ogni giorno per difenderlo. Saremo, tutti insieme, cittadini d’Italia e cittadini del Mondo.
Gianvito Piscitiello
(LucidaMente, anno VI, n. 72, dicembre 2011)
dobbiamo unificare la nostra legislazione a quella dei paesi del nord (più evoluti) e non farci prendere dal sentimento; questo aspetto n on lo sottolineate in quanto sapete quanto sono ormai distanti i paesi del nord da questo aspetto.
E’ noi facciamo ancora del “buonismo”?
Cosa fanno Germania e paesi scandinavi?? copiamoli
Comunque ogni azione nostra deve essere commisurata dal costo sociale che ne deriva: dare subito cittadinanza e diritti è un costo e va valutato bene.
Soldi in più dati a cittadini che provengono dall’estero è qualcosa di meno che viene dato ai nostri cittadini:i ragazzi esteri avranno tempo a 18 anni per chiedere la cittadinanza dimostrando che si sono integrati, che parlano bene la nostra lingua e le nostre leggi.
Farsi prendere dalla emotività per un “bimbo” che nasce da noi e non prende la cittadinanza subito non è un dramma ma rappresenta solo un costo aggiuntivo per noi e questo non ce lo possiamo più permettere: dobbiamo aiutare i nostri cittadini e prestare maggiore attenzione a loro
Caro Carlo, prima di risponderti permettimi di ringraziarti per l’attenzione con cui hai letto il mio articolo e per la possibilità di dibattito che stai offrendo. Rispetto la tua opinione ma, onestamente, non posso condividerla, così cercherò in breve di esporne le motivazioni. Innanzitutto non penso che il copia-e-incolla che proponi sia la scelta più giusta da adottare: tra il nostro Paese e quelli scandinavi esiste un fiume con un letto molto largo, fatto per lo più di diversa storia e identità. Noi discendiamo da una cultura, quella romana, che ci segna in modo pregnante. Basti pensare solo alle disposizioni emanate da Caracalla nel 212 che concedevano la cittadinanza romana a tutte le popolazioni abitanti entro i confini dell’Impero, mentre loro, gli scandinavi, erano “barbari”, legati ancora ad un predominante concetto esclusivo di clan, famiglie o poco più. Inoltre non esiste, a mio parere, motivo per cui non dovrebbero esser cittadini italiani i bambini in oggetto, dato che vanno a scuola con i nostri figli, si curano dagli stessi dottori, vivono i nostri stessi problemi, pagano le stesse tasse alla stessa istituzione. Più che arrampicarci su fascinosi esempi, cerchiamo di creare, su modello newyorkese, una “Big Apple” capace di fornire a tutti le medesime opportunità di vita. In una società globale come quella in cui viviamo appellarsi ancora ad un confine tracciato con un legnetto che divide persone altrimenti simili risulta essere un po’ un controsenso.
Gianvito Piscitiello