Quando una nazione, un paese, intraprende il cammino verso lo sfacelo, ciò avviene di solito contemporaneamente in più settori e a più livelli, e le cause vanno molto più in là di quelle che a prima vista sembrano essere le più evidenti.
Negli anni Novanta dello scorso secolo, taluni esperti affermavano che la guerra dei Balcani era in realtà nata – ben prima del 1991 – sugli spalti degli stadi tra le tifoserie appartenenti ai diversi paesi dell’ex Iugoslavia. Era nata dal crollo della “fede” in un’ideologia e dal conseguente disfacimento di una morale che tale ideologia in qualche modo sosteneva.
Era nata, soprattutto in Serbia, in seno ad una classe d’intellettuali e letterati (quelli rimasti, e cioè che non erano ancora stati cacciati dal regime) che si era fatta promotrice e sostenitrice d’idee che tendevano al nazionalismo estremo. Le vicende politiche nell’ex Iugoslavia, che hanno poi portato inevitabilmente alla guerra, non sono state altro che l’ultimo atto, la conseguenza logica di un copione che volgeva alla sua conclusione e in cui non c’era più possibilità di scelta.
La politica, insomma, anche se non sembra, viene per ultima. È cioè il fanalino di coda, l’esecutore ultimo che concretizza e porta a compimento un processo di disfacimento (/progresso) iniziato ben prima della scena in cui questo disfacimento (/progresso) appare in tutta la sua evidenza.
Anni fa, durante i giorni dell’insurrezione in Romania e dell’uccisione di Nicolae Ceausescu, mi trovavo con degli amici a Belgrado. Il confine con la Romania non era molto lontano e lo svolgersi dei tragici avvenimenti veniva seguito e sentito con una certa empatia. Parlando con un tassista, a un certo punto ci disse in tono un po’ scherzoso, ma non troppo, che «per vedere la guerra non occorre andare a Bucarest, in quanto tra breve arriverà anche qui da noi» (in Serbia). A quel tempo la frase mi sembrò esagerata e inverosimile, ma non fu così. Qualche giorno fa un altro serbo che vive a Trieste mi ha detto una cosa simile. Questa volta però si riferiva all’Italia… Il fatto in sé mi è sembrato un po’ inquietante. Tuttavia, leggendo i giornali e sentendo un po’ i malumori che piovono da tutte le parti, mi sembra che da noi la situazione attuale sia qualcosa di peggio che semplicemente “inquietante”.
In Italia i metodi usati per mettere a tacere e far uscire gli indesiderati sono diversi da quelli praticati in Serbia, ma non per questo meno efficaci. Ne è prova l’ormai da tempo noto fenomeno cosiddetto “fuga dei cervelli” dall’Italia. La recitazione del mea culpa, prassi di collaudata efficacia nelle democrazie anglosassoni, è da noi ormai talmente in disuso, in primo luogo da parte della Chiesa cattolica (non è un caso che abbia sede proprio in Italia), da essere oramai quasi del tutto scomparsi i presupposti oggettivi per un suo reinserimento. E qui non si parla di politica, ma di un’intera società, che inizia proprio dai cosiddetti “cervelli” che operano nei vari campi dell’arte, ricerca scientifica, filosofia, letteratura…
Raffaele La Capria, in un saggio ripubblicato da poco (2010) dalla Rizzoli nella collana Bur (Lo stile dell’anatra, prima edizione, Mondadori, 2001), scrive che la generazione che passò dal fascismo all’antifascismo fece questa scelta per aver letto certi libri, che non si studiavano a scuola, che non avevano niente a che fare con la politica (e neppure con il fascismo), ma che ebbero il potere di cambiare il gusto, le opinioni, il modo di vedere le cose. Sorprendentemente La Capria scrive che erano tutti libri di autori stranieri. «I grandi scrittori che segnavano la storia della letteratura italiana», così afferma La Capria, «non avevano creato romanzi con personaggi cui ci si potesse affezionare […], avevano creato “opere” in prosa e poesia dov’era presente il loro io che si identificava con la loro lingua, col loro temperamento e la loro sensibilità, al punto di farli apparire non più autori ma essi stessi personaggi, anzi quasi categorie dell’anima italiana, chiare e riconoscibili, e tipiche quanto le maschere della Commedia dell’Arte, quanto Arlecchino, Pantalone, Brighella. Detto senza nessuna irriverenza, Alfieri, Aretino, Casanova, Leopardi, Foscolo, D’Annunzio, Pascoli, Carducci evocavano per me maschere letterarie del sentimento altrettanto ben definite. […] Chi più chi meno, sono “in maschera” Malerba, Celati, Meneghello; ma considero maschere siciliane anche lo stilizzato di Sciascia, il barocco di Consolo e la mitomania di D’Arrigo. I loro libri sono quasi sempre sottoposti a una coercitiva teoria del narrare che crea obblighi, costrizioni e contrizioni che inceppano, ritardano, raffreddano e indeboliscono la narrazione, mentre invece rafforzano lo stile e abbelliscono la maschera».
Il fatto interessante è che la riflessione di La Capria va oltre una critica di tipo artistico-letterario, in quanto indica la maschera come una caratteristica antropologica, storica e culturale che in Italia ha particolare rilevanza. Più avanti, infatti, leggiamo: «Maschere, e solo italiane, sono quelle della Commedia dell’Arte, maschera dell’Antichità classica il Rinascimento, maschera la recita gridata del sentimento nel Melodramma, maschera di un’unità politica inesistente il Risorgimento, maschera di una grandezza romana altrettanto inesistente il Fascismo, e infine (e causa prima di tutto, però) maschera la lingua italiana separata che fu scritta e mai parlata». Penso sia fin troppo evidente come il tema della maschera richiami a una certa “faccialità” insistentemente presente sui mezzi pubblici di comunicazione visiva italiani odierni.
Ma non vorrei andare oltre e chiudo con degli appunti di Giovanni Comisso, scritti più di cinquant’anni fa, ma che, visto come vanno le cose ed il revisionismo storico degli ultimi anni, mi sembrano più che attuali e direi quasi un monito per il futuro: «Quello che è certo è che in questi anni gli italiani sono stati i peggiori guastatori d’Italia, peggiori di ogni altro esercito invasore. […] Mi sento in rotta con gli italiani, una volta mi divertivano adesso mi annoiano. Ho cambiato idea sull’Italia, non l’amo più, e penso che il suo stesso nome con tutte le disgrazie che ci ha procurato sia più nefasto che altro, così da abolirlo dallo Stato e dai suoi cittadini, per lasciarlo soltanto alla Italbottoni, alla Italcementi, alla Italtessimili». Concludeva Comisso: «Il ridicolo dei nostri uomini politici sarebbe altisonante, se non vi fosse la minaccia che un giorno possa diventare tragico».
L’immagine: la copertina dell’edizione Bur de Lo stile dell’anatra di Raffaele La Capria.
Adam Seli
(LM MAGAZINE n. 14, 15 gennaio 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 61, gennaio 2011)