L’eliminazione dell’ex presidente Usa dai social media è stata accolta come una liberazione. In realtà è un precedente drammatico che pagheremo in futuro
Il 6 gennaio scorso, a Washington DC è andato in scena uno degli eventi più drammatici della storia politica americana. Centinaia di manifestanti, infiammati dalle parole di Donald Trump, hanno assaltato e occupato Capitol Hill, sede del Senato, interrompendo la seduta che avrebbe certificato la vittoria elettorale del presidente eletto Joe Biden e costringendo i deputati a fuggire. La blanda (per usare un eufemismo) resistenza della polizia del Campidoglio, unita alla mancata presa di distanza di Trump dai manifestanti violenti, hanno suscitato lo sdegno della comunità internazionale.
Di fronte a questi eventi, le piattaforme social – utilizzate in modo massiccio dal presidente uscente per diffondere conclamate fake news durante tutto il suo mandato – hanno assunto decisioni drastiche nelle ore e nei giorni successivi alla protesta. Già nel tardo pomeriggio del giorno degli scontri ha iniziato Facebook, rimuovendo il fatidico video in cui Trump affermava «we’re going to walk down to Capitol Hill», e, quindi, scatenava di fatto l’assalto. L’hanno seguito a ruota YouTube e Twitter. Quest’ultimo alle 19,02 toglie tre tweet del presidente e blocca il suo account per dodici ore. Dopo qualche ora, Facebook e Instagram lo imitano. Finché l’8 gennaio il social di Mark Zuckerberg estende il blocco «indefinitamente e almeno per le prossime due settimane» e Twitter rende permanente la sospensione dell’account @realdonaldtrump. Molte delle piattaforme “minori” prendono misure simili; l’associazione no-profit First Draft ha pubblicato qui la cronologia completa della risposta dei social network agli eventi di Capitol Hill.
Di fronte a queste contromisure l’opinione pubblica ha reagito dividendosi in due: da un lato, alleati di Trump e media schierati a destra hanno gridato alla censura politica, dall’altro i suoi detrattori e i media liberal e progressisti hanno esultato per la pericolosità dei messaggi veicolati da un tycoon inspiegabilmente approdato a occupare lo scranno dell’uomo più potente del mondo. La prima opinione è giuridicamente insostenibile, la seconda pecca gravemente di miopia. Prima di affrontare la questione, però, sia consentita una premessa personale: chi scrive non potrebbe sentirsi più lontano dalla politica becera di Trump e ha seguito con sconcerto l’assalto di una banda di estremisti complottisti – fomentati da parole di evidentemente irresponsabili e squilibrate – alle fondamenta della democrazia americana.
Dicevamo, chi ha accusato Facebook e affini di aver censurato Trump è palesemente in malafede. I social media non sono uno spazio pubblico, bensì uno spazio di discussione privato, per quanto aperto a tutti, e gestito da compagnie private, del tutto libere di applicare, in accordo con le leggi, le proprie policy aziendali nel modo a loro più congeniale. Poi possiamo discutere di una disparità di trattamento nei confronti di altre personalità politiche, possiamo sollevare questioni di coerenza e di opportunismo di Big Tech rispetto alla nuova amministrazione. Ma il nocciolo della questione rimane che, se difendiamo la libertà d’impresa, è quantomeno incoerente tacciare di faziosità i servizi (privati) offerti da queste imprese. Dopo che, oltretutto, se ne sono accettati i termini di utilizzo e li si è frequentati per quattro anni come se fossero casa propria. Avremmo dovuto pensarci prima di consegnare in toto a questi servizi le chiavi del successo e della comunicazione politica.
Tutto bene, dunque? La rimozione di Trump ha certamente impedito ai suoi sproloqui di raggiungere decine di milioni di persone, ma chi ha festeggiato la pulizia della piazza virtuale solo perché contrario al populismo trumpista dimostra di non vedere al di là del proprio naso. Quello che è stato creato con il ban dell’ormai ex presidente statunitense è un gigantesco e pesante precedente. Il problema risiede nel potere di influenza e di condizionamento che è stato concesso ai giganti del web. Un potere che non ha rivali, se può arrivare a silenziare l’uomo politicamente più importante a livello mondiale. Oggi è toccato all’imprenditore prestato alla politica, ma se domani sarà la volta di un sindacato che usa i social per organizzare l’occupazione di uno stabilimento Amazon o della sede di Facebook? Pensiamoci seriamente prima di festeggiare la decapitazione mediatica di “The Donald”: la pervasività dei social network ha raggiunto una capillarità tale da poter porre sotto silenzio qualsiasi iniziativa che non collimi con gli interessi delle proprie holding. E questa è una minaccia intollerabile alle libertà democratiche.
È inutile prevedere scenari apocalittici di controllo dell’Umanità intera, scomodare il Grande Fratello di George Orwell, evocare nuovi totalitarismi digitali, se poi, quando succedono eventi così gravidi di conseguenze, siamo troppo assordati dal clamore mediatico o distratti dal folklore delle corna di bufalo per riflettere sulle conseguenze. Sette anni fa, nel suo dialogo con David Lyon, il sociologo Zygmunt Bauman evocava come caratteristica della modernità liquida la «separazione fra potere e politica». Con il primo «evaporato nello spazio dei flussi» digitali, un potere ubiquo, onnisciente e territorialmente illimitato, mentre la politica non riesce a essere efficace neppure entro i suoi angusti confini geografici. Se, come spesso si vaticina, “il futuro è già qui”, siamo sempre troppo occupati per rendercene conto.
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 182, febbraio 2021)